di Eduardo Zarelli
Fonte: Arianna Editrice
I luoghi hanno un’anima, dice Hillman nel suo saggio L’anima dei luoghi. Il nostro compito è di scoprirla. Esattamente come accade per la persona umana. Un tempo, nell’antichità, le potenze apparivano in luoghi specifici: sotto un albero, presso una sorgente, un pozzo, su una montagna, in un pianoro, all’ingresso della tana di un serpente.
Gli uomini circondavano il luogo di pietre: per proteggere la sua interiorità. Nascevano i templi; consacrati a queste divinità: gli Àuguri ritualizzando il Genius loci fondavano le città.
Oggi, il funzionalismo razionalistico cela l’interiorità dei luoghi.
Vediamo ciò che appare, le facciate dei palazzi, il manto urbano, i campi pianificati a giardino o monocoltura e dimentichiamo che là sotto c’è una topografia dinamica, interiore, fatta di sentimenti e memorie, figure e forze, fantasie e pensieri. Prendiamo un paese meridionale, le mura bianche riverberano di luce solare e i portoni ostinatamente chiusi nascondono all’indiscreto le preziose atmosfere intimistiche dell’urbanità siciliana. «La facciata – scrive Hillman – non è niente di speciale, ma dietro si trova il cortile, il giardino protetto da alti muri, la piccola fontana». Quello è il dentro del luogo.
Le culture tradizionali erano animate da un’interpretazione sacrale del territorio. Ogni angolo di terra del Pianeta presenta una propria manifestazione simbolica; ogni luogo, in cui gli uomini abbiano lasciato segni anagogici della loro presenza, ha una propria identità contemporaneamente irripetibile e universale. Mircea Eliade ha descritto compiutamente come le culture sciamaniche si basassero sulla consapevolezza che la terra ha un’energia ilomorfica, che varia da luogo a luogo. Rispettare un “territorio”, proteggendolo ecologicamente invece di distruggerlo, significa quindi permettere alla sua energia di vivere, di sopravvivere nel tempo, di giungere sino a noi.
Lo spazio era considerato la modalità principale dell’essere nel mondo e si riteneva impossibile comprendere l’essenza dell’uomo indipendentemente dall’ambiente in cui viveva. Si pensava che l’esercizio del pensiero non fosse indipendente dallo spazio/luogo in cui si abitava e che determinasse gli atteggiamenti stessi dell’essere umano. L’oikos greco, quale senso della dimora della manifestazione dell’essere, poneva il “senso del limite” comunitario del vivere associato, in assoluta simbiosi con le risorse naturali del luogo, sia in merito alla cultura materiale che a quella spirituale e, quindi, culturale. In tale contesto, il concetto stesso di “economico” si poneva in termini di sussistenza della comunità: una lettura involontariamente ecologica delle forme di civiltà.
In un’epoca nella quale domina l’artificio e la superficialità, basata sull’inganno patinato in modo che l’occhio non possa scorgere la profondità, il cammino filosofico dell’oltrepassamento postmoderno consiste nello smascherare l’inganno della banalizzazione
utilitaristica: per spingerci dentro le cose, per discernere la manifestazione dell’essere nella narcotica nauseante ridondanza dell’edonismo consumista. E conoscere quello che il daimon del luogo ci dice: a cominciare dalle sue ferite che non possono, non devono, essere cancellate dal tempo. L’architettura può aiutarci nell’aderire all’identità profonda tra cultura e natura: ascoltando l’anima del luogo, facendo in se stessa un vuoto ricettivo, non sovrapponendo la sua razionalità strumentale, le sue intenzioni soggettive, all’autenticità del luogo, all’oggettività cosmogonica. Che parla da sé. La natura indica perentoriamente, il senso del limite, la sobrietà, la forma. L’economicismo, la devastazione ambientale, la meschinità dei comportamenti interessati, il gigantismo, l’anonimato delle metropoli e l’insignificanza dei suoi (non) luoghi, l’anestetico arredamento razionalista sono alcuni dei sintomi della repressione della bellezza effettuata dal pragmatismo: sono un derivato della perdita di quel sentimento di misura e di armonia cosmica, di pudore e di grazia, che rivela l’essenza e accende l’eros, l’amore per l’anima in tutte le sue manifestazioni. Il Sé – per dirla con James Hillman – può manifestarsi solo come «interiorizzazione della comunità», da un lato, e come continuità con il cosmo, dall’altro. Solo l’amore per l’ineffabile può ricomporre l’unità interiore tra uomo e natura.
Quasi tutto, del resto, è nascosto: la profondità contempla distanze che la nostra mente neppure immagina. E conduce al mondo infero.
Questo è il mondo dei sogni. Freud e Jung – sostiene Hillman ne Il sogno e il mondo infero – pensarono di strappare l’anima da questo suo amplesso col mondo notturno e di poter interpretare i sogni col linguaggio della veglia.
Volevano spingere i sogni verso la luce del giorno. Vedevano nei sogni le spiegazioni della vita diurna e dei suoi “incubi” consci, il completamento archetipico della personalità, l’appagamento dell’istinto sessuale, le premonizioni, i «residui» della vita quotidiana. Noi dobbiamo fare l’esatto contrario: come l’architetto è opportuno che ascolti la «voce» del luogo e non sovrapponga a codesta voce la sua mente, così sarà opportuno ascoltare la «voce» del sogno.
E abbandonare la luce apparentemente chiarificatrice del giorno. I sogni, scrive Hillman con un’immagine wagneriana seducente, «sono opera di gnomi che lavorano la notte, fabbri del mondo infero che forgiano labirinti, artigiani che non smettono mai di creare forme».
Sovente, queste forme sono ambigue, indecifrabili, oscure. Se vogliamo entrare in profondità in un sogno, dobbiamo abbandonare il linguaggio del mondo diurno e penetrare nel sogno, avendo come unica guida la luce della notte. In questa dimora, tutto ciò che sappiamo della vita non serve. Qui, le pulsioni sono assai più profonde di quelle della carne e del sangue; l’istinto che ci sospinge all’interno della nostra ombra è assai più rapinoso dell’istinto della conservazione, o del mistero del sesso, ridotto a cupidigia sensistica. È l’istinto della morte. Ma non della morte fisica: quello è, appunto, un concetto diurno. È l’istinto della morte come attrazione verso il totalmente inconoscibile, il totalmente oscuro, che per eterogenesi ci apre le strade alla conoscenza ulteriore ai dualismi tra soggetto e oggetto, spirito e materia, vita e morte. La missione di Cristo nel mondo infero – scrive Hillman – consistette nell’oltrepassarlo con la sua resurrezione, con la vittoria sopra la morte. Ogni religiosità fondata sulle radici eterne del sacro propone una resurrezione come significato ed oltrepassamento della morte. L’oscurità, invece, esige
unilateralismi: s’introduce speculativamente nel profondo dei significati senza risolverli, rimuovendoli e soggiacendo a quel buio nel quale stanno ancora acquattate le belve mitologiche – le gorgoni, le sfingi – con le quali, fin dai tempi più antichi, gli uomini hanno cercato risposte alle proprie inquietudini esistenziali, nel tentativo di costruire un mondo rassicurante e opposto, luminoso, un mondo spiegabile e positivo, moralistico.
È comprensibile che l’uomo da questo buio si ritragga sgomento: che la vita umana sia una disperata, vana fuga dall’oscurità. E che i sogni, spesso, facciano paura. Ma non bisogna temere ciò che ci costituisce.
Non esiste giorno senza notte, e viceversa. La totalità è superiore alla somma funzionale delle singole parti. La forza del simbolo si radica nella ragione che anela alla conoscenza e non si diminuisce in protesi analitica e strumentale. Hillman ci ricorda da oltre un trentennio che gli Dei, defunti nel disincanto contemporaneo, riaffiorano inquieti nelle nostre patologie psicologiche, culturali e sociali. La via per ritrovare se stessi transita per il riconoscimento dell’anima del mondo. Quest’ultima si coglie per empatia, ricomponendo nell’equilibrio del Sé, introversione ed estroversione, profondità spirituale e pratica sociale, persona e collettività nel sentire comune l’identità cosmogonia, simbolica, della comunità.
L’uomo, parte di una comunità, da essa protetto e verso di essa, dunque, responsabile, consapevole del valore del mondo che lo circonda, attraversa il tempo della sua vita per comprenderne il senso.
In tale unità differenziale, il mio vivere qui e ora deve ritornare ad essere consapevole della sua molteplice appartenenza e, quindi,
responsabilità: il mio comportamento responsabile e salvaguardante non esaurisce la sua azione nel cerchio più prossimo e più visibile, ma contribuisce all’armonia del tutto.
Quando Thoreau afferma che «nella natura selvaggia sta la preservazione del mondo», intende affermare che una corretta disposizione ecologica, e quindi la possibilità di salvaguardare sia noi sia la natura, sta nel lasciare ciò che è altro da sé nella sua alterità, sottraendosi alla tendenza ad assimilarlo con la forza dell’azione o del discorso. L’abbandono di ogni volontà assimilazionistica riconosce e rispetta la diversità delle identità.
In quest’approccio ritroviamo composta la drammatica frattura dualistica tra cultura e natura, che caratterizza il disagio profondo dell’uomo civilizzato. Il modello scientifico dominante è il prodotto della considerazione della realtà come “natura morta”, cioè osservabile dall’esterno con rigore matematico, sperimentabile e manipolabile all’infinito dal Promèteo tecnologico. Questa rappresentazione, all’oggi assunta come scontata e irreversibile, è anch’essa però frutto di una falsificazione ideologica. La visione contemplativa della natura come cosmo vivente relazionale in simbiosi simbolica con la cultura è rintracciabile in millenni di civiltà umana ed è, a tutt’oggi, fonte inesausta per un paradigma scientifico olistico. Le implicazioni epistemologiche della rivoluzione quantistica, che fanno intendere il reale come tessuto di eventi totalmente interconnessi, in continuo divenire, ribaltando il piano di lavoro empirico casualistico delle scienze positivistiche, mostrano al tempo stesso la falsificazione dei modelli di conoscenza dominanti.
Una scienza dei “legami vitali”, che declini il sapere e l’agire nella coerenza della natura.