La morte filosofica

di Paolo Vicentini – 24/06/2010

Fonte: In Quiete

 

È veramente difficile comprendere la filosofia antica – non solo quella occidentale, ma anche quella orientale – senza tener conto della sua componente pratica, del suo essere non speculazione astratta, ma modo di vita volto alla realizzazione della sapienza.

Anche la lettura dei testi filosofici, nell’antichità, rientrava nell’ambito di una disciplina spirituale, di un esercizio propedeutico alla saggezza. Nella scuola platonica, ad esempio, l’ordine di lettura dei dialoghi di Platone non doveva affatto essere casuale. Scrive un noto testo platonico in passato attribuito ad Olimpiodoro: “Il primo da prendere in esame è l’‘Alcibiade’, perché in questo dialogo impariamo a conoscere noi stessi […], l’ultimo invece è il ‘Filebo’, perché vi si parla del Bene […]. Quanto a quelli che vengono considerati nel mezzo, devono essere posti nell’ordine seguente:

poiché vi sono cinque virtù di profondità vieppiù crescente, naturali, etiche, politiche, catartiche, teoretiche, bisogna leggere prima il ‘Gorgia’, testo politico, seguito dal catartico ‘Fedone’; infatti la vita catartica viene dopo quella politica; poi si procede verso la conoscenza degli esseri favorita dalla virtù etica. Questi esseri sono presi in considerazione secondo i loro pensieri e le loro azioni, perciò dopo i dialoghi indicati sopra bisogna passare alla lettura del ‘Cratilo’, che offre insegnamenti sui nomi, e quindi a quella del ‘Teeteto’, che dà insegnamenti sulle cose. Dopo di ciò, si giungerà ai dialoghi che trattano gli argomenti di scienza naturale, e così poi al ‘Fedro’ e al ‘Simposio’, che dissertano in forma teoretica e trattano problemi di teologia; infine si arriverà ai dialoghi perfetti, cioè al ‘Timeo’, al ‘Parmenide’ […] [le ‘Lettere’, le ‘Leggi’, la ‘Repubblica’]” [1]. “Ecco perché – commenta Pierre Hadot – quando Porfirio, discepolo di Plotino, pubblicò i trattati del suo maestro che non erano stati fino ad allora accessibili che ai discepoli più avanzati, non li presentò secondo il loro ordine cronologico di apparizione, ma secondo le tappe del progredire spirituale: la prima ‘Enneade’, ossia i primi nove trattati, riuniscono gli scritti che hanno un carattere etico, la seconda e la terza ‘Enneade’ fanno riferimento al mondo sensibile e a ciò che vi è in esso, e corrispondono alla parte della fisica; la quarta, la quinta e la sesta ‘Enneade’ hanno per argomento le cose divine: l’anima, l’Intelletto e l’Uno; esse corrispondono all’epottica. Le questioni dell’esegesi platonica trattate da Plotino nelle sue diverse ‘Enneadi’

corrispondono piuttosto bene all’ordine di lettura dei dialoghi di Platone proposto dalle scuole platoniche. Il concetto di progredire spirituale sta a significare che i discepoli non possono accostarsi allo studio di un’opera se non sono pervenuti al livello intellettuale e spirituale che permetterà loro di trarne profitto. Alcune opere sono riservate ai novizi, altre ai discepoli più avanzati. Non verranno esposte, dunque, in un’opera destinata ai novizi questioni complesse che sono riservate agli avanzati” [2].

Questo percorso spirituale, che caratterizza tutta la filosofia antica, durava molti anni e prevedeva spesso una vita passata in una comunità filosofica a quotidiano contatto con un maestro. Chi ha dimestichezza con tradizioni sapienziali ancora viventi, sa che questa tipologia di insegnamento è ancora praticata. Ad esempio, nel buddhismo tibetano (vajrayana), il corso di studi dei tre maggiori monasteri geluk (Drepung, Sera e Ganden) dura da quindici a venticinque anni. Esso inizia con lo studio della logica elementare, articolato in tre testi: la ‘via del ragionamento’ (rigs lam) piccola, intermedia e grande.

Padroneggiate le tre vie di ragionamento, si passa ai ‘tipi di consapevolezza’ (blo rigs) e ai ‘tipi di ragionamento’ (rtags rigs).

Lo studio di queste materie occupa da uno a cinque anni e costituisce una preparazione al nucleo del percorso spirituale geluk: i cinque trattati indiani chiamati semplicemente i ‘cinque testi’. Il primo è L’‘Ornamento della realizzazione’ (Abhisamayalamkara), attribuito a Maitreya, il cui studio richiede da quattro a sei anni. Questo testo si presenta come l’‘insegnamento nascosto’ dei ‘Sutra della perfezione della saggezza’ (Prajnaparamitasutra), ossia la struttura del sentiero verso l’illuminazione. Il secondo testo è l’‘Introduzione alla via di mezzo’ (Madhyamakavatara), di Candrakirti. Il suo studio richiede da due a quattro anni. Il terzo testo è il ‘Commento alla conoscenza valida’ (Pramanavarttika), di Dharmakirti. Il quarto è il ‘Tesoro della conoscenza’ (Abhidharmakosa), di Vasubandhu, un compendio della dottrina hinayana. Il suo studio richiede quattro anni. L’ultimo testo, che richiede anch’esso quattro anni, è il ‘Discorso sul Vinaya’ (Vinayasutra), di Gunaprabha, che elenca le regole della disciplina monastica [3].

Ho fatto questa lunga premessa per evidenziare come sia ben difficile comprendere i testi di Platone senza tener presente quale fosse la funzione che essi dovevano esercitare sul cammino spirituale del discepolo. Si prenda ad esempio la questione platonica, ben evidente nel “Fedone”, della differenza fra corpo e anima e della filosofia come esercizio di separazione dell’anima da corpo (Fedone, 64 C; 67 C-D). Cosa significa questo in termini di pratica filosofica? Platone definisce la morte proprio come una separazione dell’anima dal corpo (Fedone, 64 C); cosa significa questo: che la filosofia deve condurre al suicidio? E poi: Platone non dice forse nello stesso “Fedone” (81 A) ed in altri dialoghi che il fine ultimo della filosofia è invece realizzare una condizione di immortalità? C’è qualcosa che non torna:

cosa significa veramente la parola “corpo” nel “Fedone” platonico?

Indica veramente solo questo ammasso di ossa, carne e sangue o è qualcosa d’altro?

Apro una parentesi. Anche in tradizioni orientali è molto facile fraintendere l’utilizzazione di un certa terminologia, apparentemente molto semplice perché di uso quotidiano. Il buddhismo, ad esempio, è stato considerato a lungo da certi occidentali come una dottrina pessimistica che propagandava il rifiuto del mondo e un totale annullamento di sé nel vuoto indifferenziato del Nirvana: un vero e proprio suicidio. Pochissimi anni fa lo stesso Papa presentava il buddhismo in questa chiave: “L’‘illuminazione’ sperimentata dal Budda si riduce alla convinzione che il mondo è cattivo, che è fonte di male e di sofferenza per l’uomo. Per liberarsi da questo male bisogna liberarsi dal mondo; bisogna spezzare i legami che ci uniscono con la realtà esterna; dunque i legami esistenti nella nostra costituzione umana, nella nostra psiche e nel nostro corpo. Più ci liberiamo da tali legami, più ci rendiamo indifferenti a quanto è nel mondo, e più ci liberiamo dalla sofferenza, cioè dal male che proviene dal mondo”[4]. Ma il buddhismo è veramente questo? Cosa significa veramente la parola “mondo” nei testi buddhisti? Ritornerò alla fine su tale questione.

Torniamo per il momento al “Fedone” platonico. Se leggiamo con cura questo dialogo, vedremo che per “corpo” Platone non intende tanto la realtà ontologica che abitualmente noi associamo a questa nozione, ma una certa modalità della percezione, la percezione sensibile (cioè corporea) e, soprattutto, l’attaccamento a questa percezione (la passione), che se assolutizzata porta a identificarsi con ciò che non siamo. Come rileva giustamente Hadot riferendosi a questo esercizio spirituale platonico: “Esercitarsi a morire significa esercitarsi a morire alla propria individualità, alle proprie passioni, per vedere le cose nella prospettiva dell’universalità e dell’oggettività” [5].

Del resto, che questo fosse il vero significato di tale terminologia emerge anche da tutta la tradizione platonica successiva. Porfirio, ad esempio, esplicita chiaramente e sinteticamente il significato della “morte filosofica”: “Ciò che la natura ha legato, la natura scioglie e ciò che l’anima ha legato, l’anima scioglie; la natura ha legato il corpo all’anima, l’anima ha legato se stessa al corpo. La natura quindi scioglie il corpo dall’anima, e l’anima scioglie se stessa dal corpo. La morte è di due tipi: la prima, più conosciuta, che avviene quando il corpo si scioglie dall’anima, e la seconda, quella dei filosofi, che avviene quando l’anima si scioglie dal corpo; e la seconda non segue affatto la prima” [6].

Questa stessa dottrina è presente lungo tutta la filosofia antica fin dentro al cristianesimo. Han Urs von Balthasar giustamente rimarcava che “con i termini ‘carne’ e ‘spirito’, Paolo non designa delle parti della natura umana, ma sempre delle condizioni dell’intero uomo” [7].

Non si dimentichi inoltre che la cristiana tradizione monastica del deserto definiva la propria ascesi – identificata con la perfezione di vita cristiana – “filosofia” [8]. In Evagrio Pontico è reperibile un passo che riecheggia quello di Porfirio: “Separare il corpo dall’anima è potere che appartiene soltanto a Colui che li ha uniti; ma separare l’anima dal corpo è potere che appartiene precisamente a colui che tende alla virtù. Infatti i nostri Padri chiamano l’anacoresi [la vita monastica] esercizio della morte e fuga dal corpo” [9]. La condizione di perfetto distacco dal corpo, l’assenza delle passioni, era definita ‘apatheia’, termine spesso tradotto con ‘indifferenza’. In realtà, questa condizione è tutt’altro che una condizione di indifferenza, almeno per come siamo abituati ad intendere questa parola [10]. Il distacco dal corpo è infatti un distacco dall’io egoico, dal falso sé, e dalla massa di attaccamenti che esso produce ed è. Per far questo, uno degli esercizi spirituali più utilizzati nell’antichità, sia in oriente che in occidente [11], era l’attenzione verso il presente, la vigilanza verso se stessi (prosoche). Bisogna che il filosofo si eserciti in ogni momento ad essere perfettamente cosciente di ciò che è e di ciò che fa, e, nel far questo, a vivere ogni istante come se fosse il primo e l’ultimo:

“Fa’ conto che ogni nuova alba segni quello ch’è per te l’ultimo giorno” (Orazio, Epistole, 1.4.13).

“Non c’è stato giorno che io non abbia considerato come l’ultimo” (Seneca, Lettere a Lucilio, 93.6).

“È impossibile vivere bene il giorno presente se non lo si considera come l’estremo” (Musonio Rufo, fr. 22).

“Che ogni giorno la morte sia davanti ai tuoi occhi, e mai avrai alcun pensiero basso né alcun desiderio eccessivo” (Epitteto, Manuale, 21).

“Agire, parlare, pensare sempre come chi può in qualsiasi momento uscire dalla vita”.

“Compi ogni azione della tua vita come fosse l’ultima, tenendoti lontano da ogni superficialità”.

“Ciò che porta alla perfezione nel modo di vivere è di trascorrere ogni giorno come fosse l’ultimo” (Marco Aurelio, Ricordi, 2.11, 2.5., 7.69).

“Vivete come se doveste morire ogni giorno” (Atanasio, Vita di Antonio, 91) [12].

L’esercizio dell’attenzione verso di sé era caratteristico anche di Plotino, come ci riporta il suo biografo Porfirio: “La sua attenzione per se stesso non si allentava mai, se non durante il sonno, che d’altronde il poco cibo (spesso non consumava nemmeno del pane) e il continuo volgersi del suo pensiero verso l’intelletto gli impedivano” (Vita di Plotino, 8). E’ ovvio che essendo questo esercizio di attenzione verso di sé un esercizio di attenzione verso il proprio vero io (l’intelletto divino) e di distacco dal proprio falso io (l’ego e le sue passioni), l’attenzione verso di sé non preclude l’attenzione verso gli altri, ma anzi predispone ad essa. Commenta infatti Hadot il passo di Porfirio appena citato: “Cosa che non impedisce a Plotino di occuparsi degli altri. Egli è tutore di diversi bambini che alcuni membri dell’aristocrazia romana gli affidano alla loro morte, e si occupa della loro educazione e dei loro beni. Emerge qui che la vita contemplativa non annulla l’attenzione per gli altri, e che questa attenzione può benissimo conciliarsi con la vita secondo lo spirito” [13].

L’indifferenza del saggio antico, allora, non è tanto uno stato di apatia verso tutto e verso tutti, ma, al contrario, un mostrare verso ogni cosa, anche minima, la stessa attenzione, lo stesso amore, senza attaccarsi, e quindi dar privilegio, ad una cosa più che ad un’altra considerandola superiore o inferiore. Hadot, ancora una volta, ha perfettamente colto questa condizione spirituale: “L’indifferenza del saggio non è un disinteresse riguardo a tutto, ma una conversione dell’interesse verso qualcosa d’altro rispetto a ciò che accaparra l’attenzione e le preoccupazioni degli altri uomini. Per il saggio stoico, ad esempio, si può dire che dal momento in cui ha scoperto della Natura universale, esse assumono per lui un interesse infinito; che le cose indifferenti non dipendono dalla sua volontà, ma dalla volontà egli le accetta con amore, ma tutte con lo stesso amore; egli le trova belle, ma tutte degne della medesima ammirazione. Egli dice ‘sì’ all’universo intero e a ciascuna delle sue parti, a ciascuno dei suoi eventi, anche se una parte o un evento paiono dolorosi e ripugnanti. Si trova qui, d’altronde, lo stesso atteggiamento di Aristotele riguardo alla Natura: non bisogna avere un’avversione puerile per tale o talaltra realtà prodotta dalla Natura, poiché, come diceva Eraclito, anche in cucina ci sono degli dèi. L’indifferenza del saggio corrisponde a una trasformazione totale del rapporto con il mondo. Equilibrio dell’anima, assenza di bisogno, indifferenza alle cose indifferenti: queste qualità del saggio determinano la tranquillità della sua anima e la sua assenza di turbamento” [14].

Si è detto che l’Uno platonico toglierebbe valore all’hic et nunc, depotenzierebbe, come meno vera, la realtà quotidiana delle cose, degli enti finiti. In realtà ciò che veramente depotenzia la nostra visione della realtà è proprio l’attaccamento ad una immagine limitata, egoica, della realtà.

L’apertura verso l’Uno va intesa come apertura verso l’universale e verso una percezione della realtà finalmente depurata e limpida, verso la vita contemplativa (bios theoretikos) [15]. Scrive Plutarco: “Un uomo virtuoso non fa forse festa ogni giorno? E anche festa splendida, se siamo saggi. Il mondo è il più sacro e il più divino di tutti i templi. L’uomo vi è introdotto dalla nascita per essere lo spettatore non già di statue artificiali e inanimate, ma di quelle immagini sensibili delle essenze intelligibili […] che sono il sole, la luna, le stelle, i fiumi la cui acqua scorre sempre nuova e la terra che fa crescere l’alimento delle piante e degli animali. Una vita che sia iniziazione a questi misteri e rivelazione perfetta deve essere colma di gioia e di intima quiete” (De tranquillitate animi, 20). L’apertura contemplativa alla totalità del cosmo, propria della grande tradizione sapienziale greca, è stata di recente bene messa in evidenza da Umberto Galimberti: “L’impossibilità [nel mondo greco] di dominare la natura iscrive tanto il fare tecnico quanto l’agire politico nell’ordine immutabile della natura che l’uomo non può dominare ma solo svelare.

Da qui la concezione greca della verità come svelamento (a-letheia) della natura (physis) dalla cui contemplazione (theoria) nascono le conoscenze relative al fare e all’agire. […] Nella lingua latina… ‘contemplare’ è l’atto mediante il quale ogni essere riconosce il suo posto nella gerarchia cosmica, e da questo riconoscimento attinge la regola per la propria azione. Questa non si cadenza sugli scopi che l’uomo può proporsi, ma sull’ordine del Tutto a cui l’uomo deve adeguarsi, dopo aver riconosciuto nei cieli e nella regolarità del moto celeste la misura inoltrepassabile. Per questo Terenzio chiama ‘templa’ i cieli, e così Varrone e Lucrezio quando parla degli ‘Acherusia templa’. Il termine traduce letteralmente la ‘theoria’ greca, che etimologicamente rinvia a ‘thea’ (visione) e a ‘orao’ (vedere), dove, nella fusione delle due radici, si intensifica il senso di quella visione, in sanscrito ‘vidya’, che nella radice ‘vid’, da cui il latino ‘videre’, custodisce il segreto dei ‘Veda’. Per diverse e distanti che siano queste parole pre-occidentali non ospitano una prassi come intervento dell’uomo sulla natura, ma come dice, Plotino, un ‘theorema’, dove il cosmo è ‘oggetto di contemplazione’, e dove l’uomo deve assimilare il suo ‘logos’ al ‘logos cosmico che opera [poiei] restando immobile, e dunque restando in sé [en auto menon]’ (Enneadi, 3, 8.3). Questo schema, che descrive la relazione dell’uomo alla totalità cosmica, era già stato anticipato da Cicerone per il quale: ‘l’uomo è nato per contemplare il cosmo e, pur essendo lontano dall’esser perfetto, è pur sempre una piccola parte di ciò che è perfetto’ (De natura deorum, 2, 14). Se la perfezione è del Tutto, perfetta non sarà l’azione che persegue la finitezza degli scopi promossi da un’intenzionalità che non può modificare l’ordine cosmico, ma l’azione che, contemplando quest’ordine, cerca di adeguarsi consentendo al mortale di toccare l’eterno. Il primato greco della contemplazione, conseguente al concetto di verità come svelamento (aletheia), non è dunque una svalutazione della prassi, ma una sua nobilitazione a irradiamento di una visione, dove il fare (poiesis) discende senza mediazioni dal vedere (theoria)” [16].

Torniamo infine alla questione buddhista del cosiddetto ‘rifiuto del mondo’.

Effettivamente, ad uno sguardo superficiale, la lettura di alcuni passi del “Canone Pali” potrebbe dare adito all’idea di un disprezzo buddhista nei confronti del mondo: “I saggi fuggono via dal mondo” (Dhammapada, 175); “Io vi annuncio questa liberazione dal mondo che vi ho esposto secondo realtà: così ci si libera dal dolore” (Sutta Nipata, 172). Ma cosa si intende per ‘mondo’ in questi passi? È veramente scontato quale sia il suo autentico significato? No, non lo è. Ed infatti per ‘mondo’ si intende in questi testi proprio ciò che la tradizione platonica (e non solo) intendeva con ‘corpo’ e cioè l’attaccamento alla percezione sensibile, ad una falsa immagine di sé che produce ‘dolore’ (dukkha): “Da sei cose ha avuto origine il mondo, o Hemavato, – disse il Sublime – con sei cose è in relazione, su sei cose esattamente esso si fonda ed in sei cose viene dissolto. Si conoscono in questo mondo cinque piaceri dei sensi e, sesto, quello della mente; distaccandosi dal desiderio ci si libera dal dolore” (Sutta Nipata, 169, 171) [17]. Questa condizione interiore, in cui si è deposto il fardello del proprio ego, è anche quella che permetta la vera equanimità (upekkha), la vera compassione (karuna) e la vera benevolenza (mudita) verso tutti gli esseri: “Coltivi [colui che ha raggiunto il retto sentiero] benevolenza ed animo illimitatamente benigno per tutto il mondo: in alto, in basso e in ogni altra direzione senza impedimento alcuno, amichevolmente e con animo pacifico. Che stia fermo o che cammini, che sieda o che giaccia, sia libero da indolenza e fissi la mente sulla consapevolezza: tale condizione – com’é stato detto – è divina” (Sutta Nipata, 150-151).

Spesso, anche nel buddhismo, se ne parla come di una condizione di ‘indifferenza’, ma bisogna avere cura di intendere questa parola nel senso che prima specificava Hadot riguardo alla filosofia antica. Ecco ciò che dice in proposito il Canone Pali: “Il muni [l’asceta] completamente liberato non nutre affetti né avversioni: in lui non albergano invidia e rincrescimento, come l’acqua non si ferma sulla foglia. Come la goccia d’acqua non aderisce alla foglia del loto, come l’acqua non insudicia il loto, così il muni non si attacca a ciò che vede o sente o pensa” (Sutta Nipata, 811, 812) [18].

NOTE

[1] “Prolegomena in Platonis Philosophiam”, 26. Questo passo è tradotto nell’ottimo testo di V. Magnien, “I Misteri di Eleusi”, Edizioni di Ar, Padova 1996, p. 183.

[2] P. Hadot, “Che cos’è la filosofia antica?”, Einaudi, Torino 1998, pp. 150-151.

[3] Cfr. D. S. Lopez Jr., “Che cos’è ol buddhismo”, Ubaldini, Roma 2001, pp. 133-134.

[4] Giovanni Paolo II, “Varcare la soglia della speranza”, Mondadori, Milano 1994, pp. 94-95.

[5] P. Hadot, “Esercizi spirituali e filosofia antica”, Einaudi, Torino 1988, p. 51; ma si veda tutto il paragrafo intitolato “Imparare a morire”, pp. 49-58, ed inoltre il paragrafo “L’io, il presente e la morte” in Id., “Che cos’è la filosofia antica?”, cit., pp. 184-191.

[6] Porfirio, “Sententiae ad intelligibilia ducentes”, 8-9 Lamberz (= 19-20 Della Rosa). Una ottima traduzione italiana di questo trattato è quella di Giuseppe Girgenti (Porfirio, “Sentenze sugli intellegibili”, Rusconi, Milano 1996), ma ottime sono anche le altre traduzioni di A. R. Sodano (Porfirio, “Introduzione agli intellegibili”, D’Auria, Napoli 1979) e di M. Della Rosa (Porfirio, “Sentenze”, Garzanti, Milano 1992).

[7] H. U. von Balthasar, “La prière contemplative”, Fayard, Paris 1972, p. 256; ma si veda più in generale per quanto riguarda l’intera tradizione cristiana H. de Lubac, “L’antropologia tripartita nella tradizione cristiana”, in Id., “Mistica e mistero cristiano”, Jaca Book, Milano 1975, pp. 59-117; M. Vannini, “La morte dell’anima. Dalla mistica alla psicologia”, Le Lettere, Firenze 2003.

[8] Cfr. G. Penco, “La vita ascetica come ‘filosofia’ nell’antica tradizione monastica”, in “Studia Monastica”, 2, 1960, pp. 79-93.

[9] Evagrio Pontico, “Prakticos”, 52. Una buona traduzione italiana si trova in Evagrio Pontico, “Trattato pratico sulla vita monastica”, Città Nuova, Roma 1998.

[10] Si vedano i paragrafi relativi all’‘apatheia’ in G. M. Colombas, “Il monachesimo delle origini”, tomo II, Jaca Book, Milano 1990, pp. 278-283; T. Spidlík, “La spiritualità dell’Oriente cristiano”, San Paolo, Cinisello Balsamo 1995, pp. 248-257; P. Miquel, “Lessico del deserto”, Qiqajon, Magnano 1998, pp. 143-171.

[11] Cfr. G. G. Pasqualotto, “Il presente come divino: Epicuro, Seneca e il Buddhismo zen”, in Id., “East & West. Identità e dialogo interculturale”, Marsilio, Venezia 2003, pp. 153-160.

[12] L’esercizio spirituale del “vivere ogni istante come fosse l’ultimo” è praticato lungo tutto l’arco della filosofia antica (cfr. i riferimenti citati alla nota [5]), non solo occidentale. Il maestro buddhista tibetano Lodrö Gyatso, ad esempio, insegna: “Pensa che questo momento è l’ultimo che vivi. Perché sciuparlo con attese che non si verificheranno mai? Ogni momento è completo. Vivi ogni momento come l’ultimo” (“Il tantra dell’unico punto, Libreria Editrice Psiche, Torino 1999, p. 72). Una eco di questo insegnamento si può trovare anche in Carlo Michelstaedter: “Chi vuol avere un attimo solo sua la sua vita, essere un attimo solo persuaso di ciò che fa – deve impossessarsi del presente; vedere ogni presente come l’ultimo, come se fosse certa dopo la morte […]. A chi ha la sua vita nel presente, la morte nulla toglie” (“La persuasione e la rettorica”, Adelphi, Milano 1982, pp. 69-70).

[13] P. Hadot, “Che cos’è la filosofia antica?”, cit., p. 155.

[14] Ibid., p. 213.

[15] Si veda J. Ritter, “Origine e senso della ‘theoria’”, in Id., “Metafisica e politica”, Marietti, Casale Monferrato 1983, pp. 3-27.

[16] U. Galimberti, “Psiche e techne”, Feltrinelli, Milano 1999, pp.

279-280. Ma il passo è ripreso quasi alla lettera da Id., “La terra senza il male”, Feltrinelli, Milano 1984, pp. 131-132.

[17] Cfr. Buddhadasa, “Io e Mio. Gli insegnamenti di un maestro buddhista tailandese”, Ubaldini, Roma 1991, pp. 158-159.

[18] Una ottima traduzione dei testi del Canone buddhista in lingua pali che ho citato, a parte l’ultimo, si trovano in “La rivelazione del Buddha”, vol. I, Mondadori, Milano 2001, alle pp. 537, 871, 874.

L’ultima citazione può essere letta in Canone Buddhistico, “Raccolta di aforismi (Sutta Nipata)”, Boringhieri, Milano 1979, p. 185.