Scuola, la retromarcia sul digitale

di Corrado Zunino

fonte: La Repubblica, 12 febbraio 2014

 In Italia arranchiamo sulla banda larga in classe e l’acquisto delle costose (e da sostituire dopo pochi anni) lavagne digitali, ma nel mondo si assiste a una larga retromarcia sul digitale a scuola, il digitale come strumento didattico, il digitale come supporto necessario. Dove la scuola digitale è stata ampiamente sperimentata  –  in Inghilterra, in Argentina, in quella Corea del Sud che offre gli studenti migliori, secondo i risultati dei test Ocse-Pisa  –  si torna indietro: si sono dimostrati, qui, legami tra l’utilizzo continuo del personal computer e l’abbassamento del rendimento scolastico.

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Troppo Internet porta alla depressione

Fonte: Corriere della Sera

Monitor PCL’utilizzo eccessivo di internet potrebbe causare depressione. Ma potrebbe essere anche il contrario: cioè chi è già più incline alla depressione è maggiormente spinto a passare molte ore sul web. È il risultato di uno studio pubblicato sulla rivista Psychopathology. Gli esperti dell’Università di Leeds hanno intervistato 1.319 persone tra 16 e 51 anni raccogliendo dati sul loro uso di internet e valutando la presenza e l’entità di sintomi depressivi; l’1,2% del campione è risultato affetto da dipendenza da web ed è emerso che l’essere connessi per un tempo eccessivo è associato a sintomi depressivi. È possibile che chi usa troppo internet al punto da sostituire le relazioni sociali reali con quelle virtuali sia più a rischio isolamento e depressione.

DEPRESSIONE – «La nostra ricerca indica che l’uso di internet è associato a depressione», spiega Catriona Morrison, che ha guidato lo studio, «ma ciò che non sappiamo è se c’è un meccanismo di causa-effetto, ovvero se internet causa la depressione o se invece chi è depresso tende a collegarsi di più al web. Quello che invece è chiaro», aggiunge Morrison, «è che per un piccolo sottogruppo di persone l’eccessivo utilizzo del web potrebbe essere una spia allarmante di una tendenza alla depressione».

GIOVANI – Nel corso della ricerca il gruppo di lavoro ha controllato giovanissimi, ragazzi ma anche adulti che usano la Rete per lavoro. Scoprendo che a rischiare di cadere nella trappola della dipendenza sono più spesso i più giovani: l’età media del gruppo degli «intossicati» è infatti di 21 anni. La ricerca «rinforza i timori già sollevati dagli esperti: farsi prendere troppo dai siti web fino a sostituire le normali funzioni sociali potrebbe essere collegato a problemi piscologici come, appunto, depressione e dipendenza», dice la ricercatrice. Inoltre se appena l’1,2% dei soggetti monitorati è risultato «drogato» del web, il problema comunque ha un’incidenza maggiore rispetto ad esempio al gioco d’azzardo patologico, che in Gran Bretagna è dello 0,6%.

Estetica e tecnologia

Ho trovato un articolo di Pier Cesare Rivoltella nell’ultimo numero (dicembre) della rivista Incontri su questo argomento; penso che sia utile in un’epoca in cui non si fa che parlare di tecnologie nella didattica mettere in luce anche questo aspetto che amplia la propsettiva meramente tecnica.

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È possibile coniugare estetica e tecnologia? Cosa può avere a che fare lo strumento, la mac­china, il dispositivo, con il bello, l’e­mozione, la creatività? Sembra real­mente che ci si trovi di fronte a due prospettive (e a due logiche cultura­li) molto differenti: la logica stru­mentale che appartiene all’uso del dispositivo e la logica sentimentale che appartiene invece alla risonanza interiore delle forme. E infatti, nei curricoli di scuola — ai diversi livelli — educazione tecnologica ed educa­zione estetica sono sempre state ben demarcate nei loro confini, proprio a sottolinearne le diverse appartenen­ze e il diverso valore formativo.

Ma le cose stanno realmente così? Proprio lo sviluppo della tecnologia — in particolare della tecnologia dell’informazione e della comunicazio­ne — e la sua introduzione in scuola per produrre innovazione, ci forni­scono spunti per pensare questa relazione (tra estetica e tecnologia) in modo diverso.

Didattica e tecnologia

Pensiamo a una LIM, una Lavagna Interattiva Multimediale.
Il Ministero ne sta facendo uno dei punti di forza della sua campagna a supporto della trasformazione delle pratiche didattiche degli insegnanti. Semplificando, si tratta di una lava­gna sulla quale un videoproiettore “disegna” il desktop di un compu­ter: con questo schermo è possibile interagire attraverso un’apposita penna o direttamente con le mani. Così posso caricare un file, aprirlo, modificarlo, navigare in internet, scrivere, disegnare, salvare tutto quello che ho fatto, registrare la lezione che sto facendo.

Come si capisce, imparare a usare questo strumento nella didattica non è è immediato: all’insegnante serve una formazione. Che aspetti dovrà prevedere? La tentazione è di risol­vere tutto sul versante della tecnolo­gia e quindi pensare che imparare a usare una LIM significhi conoscere alla perfezione il software che con­sente di gestirne l’interfaccia. Il pro­blema in fondo sarebbe solo di nomenclatura (cosa attiva quel pul­sante, cosa succede se clicco su quel­l’icona) e di manualità (imparare a conoscere il comportamento della lavagna, capire che pressione eserci­tare, ecc.).

Ma siamo proprio sicuri che que­sto sia sufficiente? In altre parole: privilegiare esclusivamente il momento tecnico, il controllo stru­mentale, consente di sfruttare al meglio le possibilità che la LIM in quanto tecnologia mette a disposi­zione dell’insegnante?

La risposta è logica. Se risolvessi tutto sul piano strumentale non andrei lontano. Occorre, quindi, che il momento tecnico venga integrato sul piano estetico, e questo ad alme­no tre livelli.

Il livello della percezione

Un primo livello è quello della percezio­ne (e infatti questo è il significato del greco aisthesis, da cui l’italiano estetica). La tecnologia gode di una dimensione estetica anzitutto a questo livello. Con essa si entra in rapporto attraverso un’interfaccia che sempre più di fre­quente privilegia il momento tattile ma che lavora contemporaneamente anche sugli altri sensi (la multimedialità indica proprio questa integrazione — grazie al digitale — dei diversi sistemi di rappre­sentazione nello stesso spazio operati­vo). L’insegnante abitualmente “gioca”

sulla comunicazione orale, supportata da quella scritta: ora dovrà impegnarsi a conoscere anche altri alfabeti, a lavorare sui diversi linguaggi. Le nuove logiche percettive (le nuove estetiche) disposte dalla tecnologia sviluppano nuove atti­tudini cognitive: il pensiero viene spa­zializzato, la scena su cui i concetti si formano e si combinano è esternalizzata, lo schermo diviene il vero e proprio spa­zio di costruzione della conoscenza. Tutto questo richiede riflessione e dispo­nibilità al cambiamento.

Il livello stilistico

Un secondo livello è quello stilistico. La tendenza dell’insegnante che usa da neofita la LIM (ma è già successo in altre stagioni della didattica tecnologica con gli ipertesti e con il powerpoint) è di uti­lizzare tutti gli effetti a sua disposizione: animazioni, font diversi, colori, gif, immagini. Il risultato sono spesso scher­mate molto cariche, confuse, dove non si coglie la relazione tra la scelta di un effetto visivo e il risultato, magari (?) di apprendimento, che si intende consegui­re. Ne derivano presentazioni (nel caso di powerpoint) e sceneggiature (nel caso della LIM) oggettivamente brutte: baroc­che, kitsch, ridondanti. Si tratta di un secondo spazio importante in cui si coglie l’importanza di una dimensione estetica della tecnologia. Lo stile, cioè l’uso personale dei codici di un linguag­gio, va educato: ha le sue regole ma si nutre anche delle abitudini di consumo di chi lo sviluppa. Senza cultura artisti­ca, senza un “gusto” estetico raffinato, sarà molto difficile anche produrre con­tenuti multimediali di qualità.

Il livello della creatività

E siamo al terzo livello, quello della creatività. Io potrei, per assurdo, cono­scere alla perfezione le nuove estetiche tecnologiche, possedere un mio stile adeguato, ma non per questo riuscire a utilizzare la tecnologia nella mia didat­tica in maniera intelligente. Per farlo ho bisogno di accostarmi alla tecnologia in maniera creativa, ovvero facendo uso della mia immaginazione.

Fenomenologicamente, immaginare significa intenzionare un oggetto in assenza. Pensata in questo modo, l’im­maginazione integra la percezione, che l’oggetto lo intenzione invece in presen­za. La integra perché la percezione è sempre parziale, coglie l’oggetto da un certo punto di vista in una certa pro­spettiva, ma non può aver presenti materialmente tutte le altre. Questo è lo spazio dell’immaginazione. Per tornare all’esempio della LIM, se mi limito a percepirla, difficilmente ne potrò fare usi creativi e quindi difficilmente la userò in maniera diversa da come usavo la vecchia lavagna di ardesia. Solo se l’immaginazione mi viene in aiuto posso integrare quello che vedo (e che ho sempre fatto) aprendo scenari diver­si. Il genio come categoria estetica allu­de proprio a questo fatto: al saper vede­re le cose in maniera diversa. Creatività e immaginazione appunto.

 

Pier Cesare Rivoltella
Ordinario di  Didattica
 Direttore del CREMIT
Presidente della SIREM

L’amicizia svuotata nell’era di Facebook

da Corriere della Sera, 27 dicembre 2009

L’amicizia al tempo di Facebook: non più una frequentazione continua fatta di serate, discussioni, reciproche consolazioni. Casomai, un dialogo virtuale fatto di battute tra individui che quando va bene si sono visti due volte. E allora: se abbiamo 768 «amici» su Fb, in che senso li abbiamo?

Se siete su Facebook, lo sapete già. E in questi giorni ne avete avuto la conferma. Quest’anno si sono fatti meno auguri a voce e per telefono e anche per e-mail; e tantissimi via social network, magari urbi et orbi. Ci sono stati meno incontri anche brevi per salutarsi. In compenso, nei momenti in cui si riusciva a tirare il fiato, si andava online. Per scambiare due chiacchiere con qualcuno che non fosse un cognato; per annunciare sul proprio status che si era mangiato troppo; per fare battute sugli ultimi strani eventi italiani; per rincuorare tutti, a metà pomeriggio del 25, con dei «forza e coraggio, tra poco è finita». Poi magari ci si è visti con gli amici. I soliti. Non quelli, magari centinaia, che abbiamo su Fb. E che stanno portando la parte più evoluta del pianeta, insomma i 350 milioni di Facebook, quelli di Twitter e gli altri, a ridefinire il concetto di amicizia. Non più legame affettivo e leale tra affini che fa condividere la vita e (nella letteratura classica) la morte. Assai più spesso, un contatto collettivo labile che fa condividere video di Berlusconi, Lady Gaga, Elio e le storie tese. Non più una frequentazione continua fatta di serate, discussioni, reciproche consolazioni. Casomai, un dialogo virtuale fatto di battute tra individui che quando va bene si son visti due volte. Poi ci sono i ragazzini che stanno crescendo insieme ai social network. Ma loro sono — in parte— un’altra storia.

Perché in questi tempi di social networking «l’amicizia si sta evolvendo, da relazione a sensazione. Da qualcosa che le persone condividono a qualcosa che ognuno di noi abbraccia per conto suo; nell’isolamento delle nostre caverne elettroniche, armeggiando con i tanti piccoli pezzi di connessione come una bambina solitaria gioca con le bambole». Eccoci sistemati tutti. Ecco perché, magari, dopo certi pomeriggi domenicali passati a chattare, non ci si sente appagati, casomai lievemente angosciati e col mal di testa. La cupa frase è diWilliam Deresiewicz, ex professore di Yale e saggista, autore di un saggio su The Chronicle of Higher Education e una conferenza sulla National Public Radio dedicata alle «false amicizie». La preoccupazione è di molti, in America e fuori. Se ne è occupato persino il Wall Street Journal. La serie tv di nicchia «In Therapy» ha fornito la battuta-pietra tombale (speriamo di no): «Le famiglie sono ormai andate e gli amici stanno andando via per la stessa strada». Deresiewicz infierisce: «Essendo state relegate agli schermi dei computer, le amicizie sono qualcosa di più di una forma di distrazione? Quando sono ridotte alle dimensioni di un post in bacheca, conservano qualche contenuto? Se abbiamo 768 “amici”, in che senso li abbiamo? Facebook non include tutte le amicizie contemporanee; ma di certo mostra il loro futuro». Morale: «L’immagine del vero amico, un’anima affine rara da trovare e molto amata, è completamente scomparsa dalla nostra cultura».

Maria Laura Rodotà