Ipazia

Ipazia profuma di mistica cosmica
di Franco Cardini – 23/01/2011

Fonte: Il Sole 24 ORE

Non è certo un male che si torni a parlare di Ipazia, la bella e giovane filosofa e scienziata alessandrina uccisa ai primi del V secolo da una banda di fanatici cristiani. Se davvero il mandante fu il vescovo Cirillo, la cosa non è priva di rilievo e fonte di imbarazzo: Cirillo d’Alessandria è dottore  della Chiesa e, soprattutto, è stato canonizzato.

Una donna giovane, bella, colta, intelligente fatta ammazzare è un tema troppo conturbante, troppo  ghiotto, perché non vi si siano buttati sopra in tanti. A cominciare da Diderot e da Voltaire. Negli ultimi mesi, un film di Amenabar, Agorà, ha fatto discutere perché è sembrato che vi si adombrasse, con una certa superficialità, la tesi di Ipazia donna “moderna’ avant la lettre, una specie di  anticipatrice di Galileo e dell’illuminismo, vittima dell’eterno fanatismo fondamentalista.

Sull’argomento, che ha visto uscire parecchi saggi e anche un romanzo firmato da Maria Moneti  Codignola, è fresco di stampa, il libro di Silvia Ronchey, bizantinista dell’Università di Siena e scrittrice  di molti best seller.

Ipazia traccia un ampio e seducente quadro della vita culturale alessandrina ed ellenistico-romana del V secolo, ribadendo una volta di più che non si trattò per nulla di un secolo di “decadenza’ e che
non è affatto vero che il cristianesimo fu uno dei fattori determinanti di quella decadenza e di quella caduta, entrambi mai verificatesi.

Silvia Ronchey queste cose le dice da studiosa, senza l’aria di scoprir nulla di nuovo ma con la serena semplicità di una specialista che ha riconsiderato le fonti del Caso-Ipazia e che intende esporlo
inserendolo in un vivo contesto di fatti e d’idee. Nell’Alessandria del V secolo la vita intellettuale, politica e religiosa era vivissima. E vero che qualche decennio prima i cristiani iispirati dal vescovo Teofilo erano riusciti a distruggere un museo-biblioteca-santuario come il Serapeion, ma i termini della contesa non erano affatto quelli dello scontro tra un paganesimo colto e lungimirante e un cristianesimo rozzo, ignorante e fanatico. Al contrario, esisteva un comune ambiente culturale nel quale si muovevano cristiani e pagani convivendo e discutendo, senz’ombra di odio o di pregiudizio, anzi con la consapevolezza che le loro differenti opzioni religiose appartenevano a una medesima civiltà, ch’essi condividevano. Accanto a esso v’era anche il cristianesimo duro e intransigente che si appoggiava a frequenti incursioni di monaci squadristi che provenivano dal deserto, nonostante le leggi teodosiane vietassero loro di dimorare in città. Ed esisteva una numerosa, ricca, colta, influente comunità ebraica, forse ben più dei pagani la vera concorrente del cristianesimo.

Silvia Ronchey inquadra il suo studio sulla personalità di Ipazia in questo contesto d’incontri e di tensioni. La scienziata-filosofa finì col collocarsi obiettivamente al centro d’un gioco arduo e complesso, coprotagonisti del quale erano due suoi amici, allievi ed estimatori, il proconsole Oreste e un altro giovane esponente della Chiesa, Sinesio di Cirene, e un avversario, il vescovo Cirillo, ben deciso a ostacolare la convivenza tra religioni e visioni del mondo diverse nel nome della purezza della fede.

La Ronchey è convinta che Cirillo sia stato il mandante dell’assassinio di Ipazia e lo dimostra attraverso un’attenta escussione delle fonti. Non che ciò sgombri il campo a tutti i dubbi: del resto, molte sono le cose nella storia che tecnicamente è impossibile provare. Ma non è questo, a mio avviso, l’aspetto più interessante del libro: che invece ha soprattutto due meriti precipui.

Primo: traccia un profilo originale e interessante della “fortuna” culturale e letterale di Ipazia, chiedendosi anche perché il suo assassinio non sia annoverato fra le colpe di cui la Chiesa dovrebbe
“chiedere scusa”. Ipazia fa parte integrante d’una linea culturale limpida e robusta, che coinvolge cristiani e pagani e che giunge fino a Fozio, a Psello e, nel Quattrocento, a Gemisto Pletone.

Secondo: sottolinea che solo un gravissimo equivoco ha potuto fare di Ipazia una precorritrice del razionalismo moderno. Essa era una rappresentante del pensiero neoplatonico, con tutta la sua carica di misticismo cosmico. La sua contesa con Cirillo era quella tra due differenti visioni sacrali dell’universo e la vita, non la polemica tra un fanatico religioso e una scienziata illuminista.  L’insistenza su questo dato non è merito dappoco, in quanto si oppone a tutte le anacronistiche rivisitazioni che d’Ipazia si sono ultimamente presentate e ricolloca la filosofa di Alessandria nel contesto storico che le compete.

Ipazia, la vera storia, Silvia Ronchey Rizzoli, Milano pagg. 318 t 19,00

Il mito, per Eliade, dà valore e significato al mondo e alla vita

di Francesco Lamendola
Fonte: Arianna Editrice

L’uomo non può vivere senza miti; meglio: non può vivere senza un sistema di pensiero mitico, che integri in se stesso l’intero fenomeno dell’esistenza.
Poiché l’universo mitico è proprio delle culture arcaiche e di quelle tradizionali, comunque del mondo pre-moderno, esiste un atteggiamento di sufficienza e di distacco nei suoi confronti, quasi che si trattasse della espressione di un pensiero bambino, giustificato in un conteso “primitivo”, ma assolutamente incongruo nella razionale società odierna.
Questo grossolano pregiudizio scientista fa sì che la cultura occidentale moderna stenti a trovare gli strumenti operativi e le stesse categorie concettuali atti a comprendere il fenomeno della mitologia dall’interno, ossia cogliendone le vitali articolazioni con l’orizzonte spirituale dei popoli che l’hanno elaborata, per dare fondamento alla loro esistenza e per stabilire una relazione di corrispondenza fra se stessi e la realtà circostante.
Il mito non è soltanto uno strumento per razionalizzare i fenomeni naturali e per rassicurare le paure ancestrali dell’uomo, come vorrebbe la Vulgata scientista, ma qualcosa di molto più complesso e di molto più elevato: è una finestra sulla dimensione trascendente spalancata nell’immanente, sull’atemporale nel temporale, sull’assoluto nel relativo.
Grazie al mito, la realtà assume un significato e si presenta all’uomo sotto la categoria dei valori: a cominciare dalla sua stessa esistenza, collegata al passato (antenati) e al futuro (discendenti), nonché a tutti gli altri viventi, vegetali ed animali, al cielo, alla terra, alle stagioni, al giorno e alla notte; e pervasa da poderose correnti di presenze sovrumane, ora benevole ora maligne, che l’uomo stesso può, a determinate condizioni, comprendere e, talvolta, padroneggiare.
Se l’animale cade sotto la freccia del cacciatore, ciò non avviene per esclusivo merito dell’abilità di quest’ultimo; se la spiga di grano germoglia e giunge a maturazione, ciò non è solamente effetto del lavoro dell’agricoltore. Esiste un patto fra l’uomo e le forze della natura, sottoscritto dagli antenati e rinnovato continuamente mediante i riti sciamanici e le prescrizioni totemiche, grazie al quale la Terra offre all’uomo ciò di cui ha bisogno, purché ne usi con saggezza e con moderazione e purché si riconosca debitore di tutto ciò che riceve.
Il mito è la struttura di pensiero che rende ragione di tutto ciò e, di conseguenza, che offre all’uomo la prospettiva di un significato insito nelle cose, in tutte le cose, ivi compreso il suo stesso esistere; in questo senso, si può anche dire che il pensiero mitico è una forma embrionale di pensiero filosofico, o, per dir meglio, una forma di pensiero parallela al pensiero filosofico. Infatti la mitologia non è una sorta di filosofia bambina, ma una forma di pensiero che, come la filosofia, tende a spiegare l’origine delle cose e della vita; non limitandosi – però – alla dimensione del pensiero logico, né ad una conoscenza di tipo oggettivo ed esterno alle cose, ma calandosi, per così dire, nelle cose stesse, onde rivelarne il volto nascosto ed i significati profondi, che parlano all’uomo per mezzo di simboli.
Ciò non significa in alcun modo che il mito sia una forma di conoscenza inferiore alla filosofia; tanto è vero che un filosofo della statura di Platone si è servito del mito proprio per tentare di esplorare alcune delle verità più profonde e difficili. (Ma su tutto questo, vedi anche il nostro precedente articolo: «Il pensiero mitico è diverso, non certo inferiore a quello scientifico», particolarmente dedicato alla riflessione dell’epistemologo tedesco Kurt Hübner, apparso sul sito di Arianna Editrice in data 15/01/2008).
Il grande storico delle religioni Mircea Eliade ha dedicato gran parte dei suoi studi e delle sue riflessioni proprio ad illuminare il significato del mito nel contesto delle culture arcaiche, con particolare riguardo allo sciamanesimo; e, su tale argomento, ha scritto alcune delle pagine più significative che l’intera cultura europea abbia prodotto.
Osserva, dunque, Eliade in «Mito e realtà» (titolo originale: «Myth and Reality»; trasduzione italiana di Giovanni Cantoni, Roma, Borla Editore, 1974, pp. 144-46):

«In un mondo simile [ossia quello del mito], l’uomo non si sente rinchiuso nel suo modo d’esistenza; anch’egli è “aperto”, comunica con il mondo, perché utilizza lo stesso linguaggio: il simbolo. Se il mondo gli parla attraverso i suoi astri, le sue piante e i suoi animali, i suoi fiumi e i suoi monti, le sue stagioni e le sue notti, l’uomo gli risponde con i suoi sogni e la sua vita immaginativa, con i suoi antenati oppure con i suoi “totem” – ad un tempo natura, sovranatura ed esseri umani -, con la sua capacità di morire e risuscitare ritualmente nelle sue cerimonie di iniziazione (né più né meno della luna e della vegetazione), con il suo potere di incarnare uno spirito mettendosi una maschera, ecc. Se il mondo è trasparente per l’uomo arcaico, anche questo si sente “guardato” e compreso dal mondo. La selvaggina lo guarda e lo comprende (spesso l’animale si lascia catturare perché sa che l’uomo ha fame), come pure la roccia, o l’albero, o il fiume. Ciascuno ha la sua storia da raccontargli, un consiglio da dargli.
Pur sapendosi essere umano e accettandosi come tale, l’uomo delle società arcaiche sa anche di essere qualche cosa di più. Per esempio, sa che il suo antenato è stato un animale, oppure che può morire e tornare alla vita (iniziazione, trance sciamanica) , che può influenzare i raccolti con le sue orge (che può comportarsi con la sua sposa come il cielo con la terra o che può avere la parte del vomere e sua moglie quella del solco). Nelle culture più complesse, l’uomo sa che il suo respiro è vento, che le sue ossa sono simili a montagne, che un fuoco brucia nel suo stomaco, che il suo ombelico può diventare “centro del mondo”, ecc.
Non bisogna immaginare che questa “apertura” verso il mondo si traduca in una concezione bucolica dell’esistenza I miti dei “primitivi” e i rituali che ne dipendono non ci rivelano un’Arcadia arcaica. Come si è visto, i paleocoltivatori, assumendosi la responsabilità di far prosperare il mondo vegetale, hanno accettato ugualmente la tortura delle vittime a vantaggio dei raccolti, l’orgia sessuale, il cannibalismo, la caccia di teste.
Si tratta di una concezione tragica dell’esistenza, risultato della valorizzazione religiosa della tortura e della morte violenta. Un mito come quello di Hainuwele [tramandato nelle Isole Molucche, nella parte più orientale dell’odierna Indonesia], e tutto il complesso socio-religioso che esso articola e giustifica, forza l’uomo ad accettare la sua condizione di essere mortale e sessuato, condannato a uccidere e a lavorare per potersi nutrire. Il mondo vegetale e animale gli “parla” della sua origine, cioè, in ultima analisi, di Hainuwele; il paleo coltivatore comprende questo linguaggio e scopre un significato per tutto ciò che lo circonda e per tutto ciò che fa.
Ma questo lo obbliga ad accettare la crudeltà e l’uccisione come parte integrante del suo modo d’essere. Certamente, la crudeltà, la tortura, l’uccisione, non sono comportamenti specifici ed esclusivi dei “primitivi”. Li si incontra lungo tutta la storia, talvolta con un parossismo sconosciuto alle società arcaiche. La differenza consiste soprattutto nel fatto che, per i “primitivi”, questa condotta violenta ha un valore religioso ed è ricalcata su modelli sovrumani. Questa concezione si è protratta a lungo nella storia. Gli stermini di massa di un Gengis Khan, per esempio, trovano ancora una giustificazione religiosa.
Il mito non è, in se stesso, una garanzia di “bontà” e di moralità. La sua funzione consiste nel rivelare dei modelli e nel fornire così un significato al mondo e al’esistenza umana. Anche il suo ruolo nella costituzione dell’uomo è immenso. In virtù del mito, lo abbiamo detto, le idee di REALTÀ, di VALORE, di TRASCENDENZA, vengono lentamente alla luce. In virtù del mito, il mondo si lascia cogliere come cosmo perfettamente articolato, intelligibile e significativo. Raccontando come le cose sono state fatte, il mito svela per chi e per che cosa sono state fatte e in quale circostanza. Tutte queste “rivelazioni”
impegnano direttamente l’uomo, perché costituiscono una “storia sacra”.»

Come si vede, la visione di Eliade è lontanissima da ogni edulcorazione in chiave roussoiana delle società arcaiche; nessun mito del buon selvaggio, nessuna “bontà” intrinseca del mondo mitico: e, del resto, basta un minimo di conoscenza della storia e della letteratura antiche per rendersene immediatamente conto.
Non è forse per espletare un rito di natura espiatoria e propiziatoria che Achille uccide i dodici giovinetti troiani sulla pira di Patroclo; episodio che perfino il raffinato Virgilio, esponente di una cultura molto più “moderna”, riprende nella sua «Eneide»? Ebbene, si tratta di un’azione che acquista significato alla luce della credenza in un legame tra l’aldiqua e l’Aldilà, che trae origine e significato alla luce del mito: nel caso specifico, la credenza che il sangue di alcune vittime innocenti possa placare i Mani di un defunto strappato anzitempo alla vita.
E non sono forse piene le tombe etrusche, a cominciare dalla celeberrima Tomba François di Vulci, di simili raffigurazioni, addirittura impressionanti nella loro carica di tragicità e di cruento realismo, con il demone infernale Charun (latrino Charon), dall’aspetto spaventoso, che accompagna le anime nel loro viaggio al Regno dei morti?
Eliade ci ricorda che la pratica del sacrificio umano è indissolubilmente legata alle culture dei paleocotivatori; e l’archeologia ce ne dà conferma, da un capo all’altro del mondo, dall’Europa alle Americhe: ad esempio con le cerimonie dei Maya per scongiurare la siccità mediante il sacrificio di una fanciulla vergine, che veniva precipitata in un pozzo, o con quella degli Skidi Pawnee dedicata alla Stella del mattino, nella quale, sempre per propiziarsi le forze magiche della natura, essi uccidevano una vergine, all’alba, trafiggendola con piccole frecce infuocate.
Sbagliano, dunque, sia coloro i quali ostentano disprezzo verso la concezione mitica del mondo, sia coloro i quali la idealizzano in maniera ingenuamente acritica, proiettando su di essa il loro vagheggiamento di un Eden incontaminato e perfetto, che nasce dalla frustrazione di essere membri di una società esasperatamente individualista e materialista.
La funzione del mito era ed è essenzialmente quella di rivelare la dimensione nascosta, originaria, delle cose, mostrando la stretta interconnessione che tutte le congiunge e che unisce ad esse anche l’uomo.
Al tempo stesso, il mito tramanda il ricordo di un tempo in cui un ordine felice regnava nel mondo e l’uomo stesso godeva di uno statuto privilegiato; cose entrambe che sono andate perdute a causa di un disordine, di una perturbazione, di una caduta che ha incrinato l’assetto originario, ma che appunto il mito è in grado di recuperare, almeno parzialmente, consentendo all’uomo di ricollegarsi a quella fortunata condizione originaria.
In questo senso, è corretto affermare che il mito punta a reintegrare l’uomo nella sua pienezza ontologica e che tale reintegrazione assume le forme e la prospettiva di una elevazione, ossia di un superamento della sua condizione presente, limitata e precaria, per sviluppare e potenziare in lui le facoltà superiori, ivi compresa quella di parlare alle cose, alle piante, agli animali e, pertanto, di rinsaldare i vincoli magici che tengono in equilibrio le forze cosmiche.
Il mito si collega anche da questo lato allo sciamanesimo e dischiude all’uomo la possibilità di inserirsi non più da spettatore inerme o da vittima rassegnata, ma da autentico protagonista, nel gioco di tali forze cosmiche, dalle quale può attingere poteri e possibilità che, nello stato ordinario di esistenza, sono per lui inimmaginabili.
Infine il mito delinea una concezione sacrale del reale; una concezione, cioè, che, rivestendo di mistero e di potenza gli elementi del cosmo, si pone agli antipodi della nostra cultura secolarizzata e della sua pretesa di capire tutto, di spiegare tutto, di misurare e quantificare ogni cosa, alla luce del Logos strumentale e calcolante.
Il mito, infatti, non è, semplicemente, conoscenza del reale, ma
rivelazione: e, come tale, presuppone un “corpus” di dottrine esoteriche che solo nei tempi e nei modi stabiliti possono venir trasmessi di generazione in generazione, essendo di origine superiore all’umana; ciò che va propriamente sotto il nome di Tradizione.
Riconoscendo una Tradizione sovrumana, dalla quale derivano tanto l’ordine cosmico, quando le dottrine iniziatiche che permettono all’uomo di scorgerlo, di rispettarlo e di porsi in sintonia con esso, il mito si pone, in effetti, come una forma di approccio al reale radicalmente diversa, e antagonista, rispetto a quella cui noi moderni siamo ormai talmente abituati, da considerarla l’unica vera e realmente efficace.
Una cosa è certa: finché non scenderemo dal piedistallo della nostra presunzione scientista, non potremo capire nulla del mito e continueremo o a denigrarlo, o a idealizzarlo, senza mai penetrarne l’intima essenza.
Che non si lascia catturare in schemi di tipo esclusivamente logico e scientifico, quali quelli cui siamo abituati da quattro secoli di razionalismo materialista e meccanicista; ma che richiede un salto, una discontinuità nel nostro atteggiamento verso il reale, che coinvolga non solo il Logos, ma tutte le nostre facoltà, a cominciare dai sensi interni e dalle potenzialità sopite dell’anima.

Primavera

È meglio non abituarsi a guardare ciò che declina, come il tramonto del sole o le foglie che cadono in autunno… Certo, il cielo al tramonto è uno spettacolo magnifico: tutti quei colori che si fondono gli uni negli altri… Come non essere in ammirazione? E quando in autunno le foglie cadono dagli alberi e sono trasportate dal vento, ci si sente colmi di una dolce malinconia e si pensa al tempo che passa… Perché no?

Ma se volete veramente ricevere in voi la fede e la speranza, andate piuttosto a contemplare ciò che nasce, ciò che sboccia… Dopo aver guardato in autunno le foglie che cadono, prestate forse attenzione anche allo schiudersi delle nuove gemme e dei nuovi fiori in primavera? È proprio allora che la natura vi trasmette qualcosa di prezioso! E se sentite il bisogno di immergervi in un’atmosfera pura e vivificante, uscite al mattino, più presto che potete, per contemplare il sole che sorge.

 Omraam Mikhaël Aïvanhov

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