I
moti del '31 avevano concluso in un certo senso un'epoca storica in Italia .
Se
pure essi avevano avuto una base sociale più larga che non quelli del
1820-21, appariva al tempo stesso chiaro che il vecchio movimento settario non
era stato capace ne di guidare i movimenti rivoluzionari con energia ne di
elaborare un programma in grado di coinvolgere gli strati popolari. Dal canto
suo l'assetto degli Stati italiani si rivelava sempre più anacronistico e
incapace di soddisfare le stesse esigenze di rinnovamento che maturavano negli
strati moderati della borghesia e dell’aristocrazia liberale, sotto
l’influenza dell’evoluzione liberale della Inghilterra e della Francia.
In
questa situazione va collocata da un lato la crisi della Carboneria,
universalmente screditata, e dall'altro la successiva divisione delle forze
che premevano per il rinnovamento in due ali fondamentali: la corrente
mazziniana, che intese superare la Carboneria con un programma di rivoluzione
nazionale fondata sull'iniziativa popolare, e le correnti moderate, le quali
puntarono sull'iniziativa della classe dirigente e sul riformismo dei governi.
Ma e necessario tener subito presente a questo proposito che sia il concetto
mazziniano di iniziativa popolare che quello moderato di iniziativa dall'alto
rimasero condizionati in Italia dalla quasi assenza delle due forze sociali
fondamentali che caratterizzavano il mondo o politico e sociale della Gran
Bretagna e della Francia: il proletariato industriale e la grande borghesia
capitalistica.
Giuseppe
Mazzini era nato nel 1805 a Genova. La madre, Maria Rossi Drago, di spiriti
patriottici assai vivi e di severa moralità di stampo giansenistico
(abbastanza diffusa negli ambienti borghesi genovesi), esercitò una profonda
influenza sul figlio, di cui approvò sempre l'attività di cospiratore.
Nel
1821 Mazzini assistette, e fu un'impressione profonda, alla scena dell'imbarco
degli esuli condannati dopo il fallimento dei moti nel regno sardo. Durante il
periodo universitario (si era iscritto alla facoltà di giurisprudenza a
Genova; laureandosi nel 1827) divenne un romantico liberale, convinto
oppositore del retrivo governo sabaudo. Nel 1827 si iscrisse alla Carboneria,
nutrendo l'illusione che questa potesse rinnovarsi grazie anche all'immissione
di nuovi quadri, come i fratelli Giovanni e Agostino Ruffini. Alla sua attività
nella Carboneria pose fine l'arresto, avvenuto nel novembre 1830 in seguito a
una delazione. Dopo essere stato rinchiuso nel forte di Savona per circa tre
mesi, data la mancanza di solidi indizi contro di lui, venne liberato ma
costretto dalle autorità alla scelta fra il confino e l’esilio. Scelto
l’esilio, Mazzini, dopo vari e vani progetti di intervento a favore degli
insorti del 1831, si stabilì a Marsiglia, in Francia. Mazzini subì una serie
di influenze, che risultarono decisive per l’elaborazione del programma,
steso nel giungo 1831, di una nuova organizzazione, destinata nelle intenzioni
del uso fondatore a superare i limiti, giudicati ormai inguaribili, della
vecchia Carboneria e in genere delle organizzazioni settarie: la Giovine
Italia. Anzitutto, dal contatto, anche epistolare, con Buonarroti Mazzini
venne orientato in senso democratico-giacobino e spinto a un punto di vista
intransigentemente repubblicano-unitario; inoltre, per influenza del
sansimonismo, il suo repubblicanesimo si colorì di utopismo sociale; infine,
fu suggestionato dalle teorie del ‘progresso’ elaborate da Cousin e da
Guizot . In particolare lo colpi la teoria di Guizot relativa al primato che
la Francia aveva esercitato in Europa, che egli inserì nel suo sistema di
pensiero capovolgendola e giungendo a sostenere, per contro, la necessità di
una nuova ‘missione’ della nazione italiana nel mondo contemporaneo.
Nella
sua Istruzione generale per gli
affratellati nella ‘Giovine Italia’ Mazzini elaborò un programma di
azione politica che nei suoi propositi doveva dunque insieme segnare il netto
superamento sia dei metodi della Carboneria sia dell'ideologia del vecchio
movimento rivoluzionario italiano. Mazzini poneva il programma della Giovine
Italia sotto la bandiera dei seguenti grandi principi: Libertà, Eguaglianza,
Umanità, Indipendenza, Unità. La legge comune degli affiliati doveva essere
quella del Progresso e del Dovere l'unica
in grado di conferire alla rivoluzione la fiducia nei suoi destini e una
regola interiore ai suoi militanti.
Quanto
ai mezzi per conseguire lo scopo dell'unità repubblicana, Mazzini poneva al
centro la propaganda educativa e l'insurrezione. La bandiera della Giovine
Italia era il tricolore: bianco, rosso, verde. A1 particolarismo organizzativo
delle sette, Mazzini contrappose una organizzazione a livello nazionale; alla
segretezza degli obiettivi custoditi dai capi settari l'agitazione ideologica
che deve penetrare nel popolo, fatto oggetto di una pedagogia politica; alle
insurrezioni locali, l'idea di una rivoluzione nazionale e dell'unità
italiana.
Nel
periodo successivo alla fondazione della Giovine Italia
Mazzini andò chiarendo in un sistema sostanzialmente coerente di
pensiero i suoi intendimenti.
La
questione fondamentale era legata alla definizione di chi fosse
‘popolo’ poiché non poteva non derivare una strategia
rivoluzionaria profondamente diversa a seconda che il popolo fosse costituito
dalle masse lavoratrici oppure dall'insieme tutte le categorie sociali
disposte ad accettare il programma del nazionalismo democratico. Partito
originariamente da una concezione che sotto l'influenza buonarottiana tendeva
a identificare popolo e masse lavoratrici, Mazzini corresse dopo pochi anni il
suo orientamento nella direzione
del secondo significato. Il che ebbe una conseguenza fondamentale, poiché
portò il mazzinianesimo a qualificarsi come una dottrina il cui asse era
costituito da un progetto di rivoluzione essenzialmente politica, che rinviava
la soluzione della ‘questione sociale’ al periodo successivo al trionfo
della rivoluzione nazionale.
Mazzini,
preoccupato di assicurare rapporti di reciproco rispetto fra gli individui e
fra le classi, venne portato, in contrasto con la tradizione della rivoluzione
francese accusata di avere aperto le porte al conflitto degli interessi e
all'esaltazione unilaterale dei diritti, a mettere in primo piano il senso del
dovere, che solo poteva dare un fondamento e un limite al diritto. Ora come
sul diritto deve avere la precedenza il dovere, così, nella sfera
internazionale, 1 Umanità deve appoggiare sul rispetto reciproco delle sue
cellule fondamentali: le nazioni. Di qui la necessità che quelle nazioni che
non sono riconosciute tali e sono oppresse intraprendano la lotta
rivoluzionaria per la loro liberazione.
Ma
chi regola le vicende generali della storia ed e garante della verità delle
lotte nazionali che il popolo deve condurre? Mazzini, imbevuto di cultura
romantica, risponde che la legge dell’Umanità è data da Dio, il quale non
è da lui concepito nei termini trascendenti della religione cristiana, ma
come la forza immanente e il principio etico superiore che presiede alle virtù
dei singoli e delle nazione e che trova nella storia la sua rivelazione e nel
popolo il suo strumento attuale di progresso.
Mazzini
risolse la questione del rapporto fra la nazione italiana e l'Umanità
sostenendo che Dio aveva affidato all'Italia una ‘missione’. Questa
missione consisteva nella realizzazione di un disegno che attribuiva alla
terza Roma (dopo la Roma dei Cesari, che aveva unificato politicamente il
mondo antico, e dopo la Roma dei papi, che aveva unificato sotto la religione
cristiana il mondo del medioevo) il compito di farsi promotrice nel mondo di
una terza unificazione, quella della fratellanza e dell'associazione, che
“cancellerà col suo dito potente i1 simbolo del Medioevo, e sostituirà
l'unità sociale alla vecchia unità spirituale”.
La
Giovine Italia doveva, negli intendimenti mazziniani, diventare lo strumento
per una riscossa morale e civile dello stesso carattere italiano piegato dalla
tradizione conformistica, attraverso l'unità di Pensiero e Azione.
Il
programma mazziniano, avvolto in formule ispirate a un misticismo di stampo
romantico, era un tipico programma democratico, nato in un periodo storico
quale quello immediatamente seguente il 1830-31, allorquando nelle file della
democrazia europea era convinzione generale che entro breve tempo l’Europa
sarebbe stata scossa da una nuova e più forte ondata rivoluzionaria. Mazzini
riteneva che l'insurrezione popolare avrebbe dovuto essere il mezzo essenziale
per ottenere la conquista dell'unita nazionale su base democratica. Ma il
popolo, nella stragrande maggioranza, era in Italia costituito da contadini
che non potevano essere raggiunti da chi non legasse la soluzione della
questione nazionale alla soluzione dei loro interessi concreti e in
particolare alla questione agraria. Su questo piano Mazzini non elaborò alcun
programma concreto, con risultato di perpetuare la soggezione delle masse
contadine alle autorità politiche e religiose tradizionali. In questo modo il
piano dell'insurrezione popolare a fin dall'origine destinato all'insuccesso;
e non valse a correggere il suo limite impostazione l'adesione al programma
mazziniano di limitati settori
degli artigiani e degli operai delle città.
Formato
un nucleo di aderenti alla Giovine Italia in mezzo all'emigrazione, Mazzini si
diede ad allargare la rete organizzativa in Italia, specie a Genova e
nell’Italia centrale. Nel 1832 venne fondato e fatto circolare
clandestinamente periodico La Giovine
Italia. In particolare Mazzini cerco di far penetrare propria propaganda
nelle file dell'esercito sardo, in vista di un'insurrezione e avrebbe dovuto
far perno sui reggimenti di artiglieria di stanza a Genova e Alessandria .
Ma
la polizia di Carlo Alberto, salito sul trono nel 1831, era particolarmente
vigile. Tanto più dopo che Mazzini, vuoi per tentare una carta rischiosa,
vuoi per sfatare definitivamente il mito di un Carlo Alberto sostenitore del
rinnovamento nazionale, aveva diretto al sovrano, subito dopo la sua ascesa al
trono, la lettera in cui lo invitava a mettersi a capo del risorgimento
italiano, ottenendone in cambio un’implacabile ostilità. Le fila della
cospirazione mazziniana vennero scoperte. E nel giugno 1833 dodici cospiratori
furono giustiziati, mentre centinaia di sospetti si rifugiarono all’estero.
Lo stesso Mazzini fu condannato a morte in
contumacia. Due cospiratori, fra cui l'intimo amico di Mazzini, Jacopo
Ruffini, si uccisero in carcere. La repressione venne condotta sotto la
personale sorveglianza del re. Anche il cappellano di questo, Vincenzo
Gioberti, sospetto di essere filomazziniano,
andò in esilio.
Nonostante
la repressione avesse messo in piena crisi l'organizzazione nel regno sardo,
Mazzini riprese a ritessere le fila in vista di una nuova insurrezione, che
avrebbe dovuto accendersi sotto la spinta di una spedizione che, attraverso la
Savoia era destinata a penetrare in Piemonte e di una rivolta a Genova fra i
marinai della flotta militare. Anche questa fallì completamente sia in Savoia
che a Genova. Nel tentativo di sollevazione dei marinai della flotta venne
coinvolto Giuseppe Garibaldi, che fu condannato a morte in contumacia.
Garibaldi,
nato a Nizza nel 1807 dopo aver servito nella marina civile ed essere giunto
al grado di capitano convertitosi agli ideali della Giovine Italia, si era
arruolato nella marina militare per svolgervi propaganda rivoluzionaria. Dopo
il fallimento del moto di Genova emigrò nell'America Latina; e qui combatté
in terra e in mare in una serie di guerre
distinguendosi particolarmente nella difesa della repubblica di
Montevideo contro il dittatore dell'Argentina Rosas. Fu in queste guerre
americane che Garibaldi poté rivelare quel talento di comandante popolare,
che era destinato a rifulgere più tardi nelle guerre risorgimentali.
Il
bilancio dell’azione mazziniana si chiudeva con una grave perdita di
prestigio del capo rivoluzionario. La rete cospirativa si trovava scompaginata
dalla repressione. Mazzini rimase sempre più isolato, mentre la repressione
colpiva. Nel 1835 nel Lombardo-Veneto si ebbero venti condanne a morte, poi
mutate in pene detentive. In Toscana venne colpita sia la rete mazziniana che
quella buonarrotiana. Fra il 1831 e il 1833 tentativi di cospirazione e
insurrezione di ispirazione mazziniana vennero sanguinosamente stroncati nel
Mezzogiorno.
Nel
1834 Mazzini si trasferì in Svizzera. Nell'impossibilità di agire in
direzione dell'Italia, con un ristretto gruppo di esuli italiani, polacchi e
tedeschi, fondò la Giovane Europa nel 1834,
basata sui principi di solidarietà fra le nazioni, e successivamente
la Giovane Svizzera con obiettivi di rinnovamento democratico interno . Ma
simili iniziative non andavano oltre l'affermazione di principi generali, e
non potevano sopperire alla crisi reale dell'azione in Italia. Fu in queste
condizioni che il campo rivoluzionario italiano attraverso una profonda crisi
politica. I risultati pratici, così scarsi politicamente eppure tanto costosi
in vite umane e in dispendio di energie non erano tali da mettere in
discussione tutto il senso dell’azione mazziniana? Aveva egli il diritto
umano di sacrificare vite e destini?
In
questa quella che è passata alla storia come la ‘tempesta del dubbio’.
Mazzini da questa crisi convinto che, nonostante ogni
sacrificio, le ragioni della rivoluzione nazionale italiana dovevano
essere affermate al di là d'ogni altra considerazione e di qualsiasi
insuccesso contingente. Quando, nel gennaio 1837, egli giunse in Inghilterra,
dopo essere stato colpito da un decreto di espulsione sollecitato dalla
Francia, la crisi era superata.
In
Inghilterra Mazzini attraverso momenti di gravi difficoltà materiali. Visse
per un certo tempo quasi in miseria. Dopo un periodo di isolamento politico,
nell’aprile 1840, stabiliti rapporti con esuli italiani nel mondo, ricostituì,
su una base piuttosto limitata, la Giovine Italia. In Inghilterra, venuto a
contatto con il movimento operaio moderno, egli acquisì un nuovo senso
dell'importanza della questione sociale, tanto che fondò, come sezione della
Giovine Italia, l'Unione degli operai italiani col fine di promuovere un
agitazione in mezzo ai lavoratori italiani emigrati; ma si trattava per lui
pur sempre di dare una base più larga all'azione primaria in favore della
liberazione nazionale.
Una
nuova disfatta politica fu per Mazzini il fallimento nel 1844 della spedizione
in Calabria tentata dai fratelli Attilio ed Emilio Bandiera, ufficiali della
marina imperiale austriaca legatisi alla Giovine Italia. Costoro, sulla base
di un’errata valutazione delle possibilità insurrezionali esistenti nel
Mezzogiorno, e nonostante Mazzini avesse cercato di trattenerli, nel giugno
sbarcarono convinti di poter sollevare la popolazione contadina; una volta
sbarcati, rimasero isolati, caddero prigionieri della gendarmeria borbonica, e
vennero quindi fucilati con sette compagni. L'impressione nell'opinione
pubblica italiana fu enorme e, per quanto non fosse responsabile dell'azione
dei due fratelli, i quali avevano agito autonomamente, Mazzini, che anzi si
preoccupava di frenare le iniziative azzardate, venne sottoposto ad accuse di
irresponsabilità e di cinismo. Era suonata l'ora del riformismo moderato e
legalitario.
L'ideologia
mazziniana, che esaltava l'insurrezione popolare, con il suo progressismo
umanitario ed antidogmatico, era un'ideologia scomoda: non sarebbe mai
riuscita a convincere quegli strati della borghesia, ed erano i più numerosi
ed influenti, che avrebbero voluto un'unificazione politica ed economica
dell'Italia, ma senza insurrezioni, senza lotte di classe, senza rivoluzione e
possibilmente d'accordo con la Chiesa. V'era proprio necessità che per
unificare il paese si dovesse combattere contro preti e il papa, che si
dovesse scendere nelle piazze, eccitare il popolo e decapitare i principi? E
d'altra parte, anche volendo queste cose, dove trovare le forze per fare un
così radicale cambiamento? Le campagne erano nella mani dei preti, il popolo
italiano era religioso, i principi erano protetti dall'Austria e l'Austria
aveva un esercito pronto a intervenire. Affidarsi all'iniziativa di pochi
generosi? Ma si era vista la fine che avevano fatto i moti mazziniani!
I buoni italiani - scriveva l'abate Vincenzo Gioberti al Massari nel 1841 - possono secondare, aiutare, proseguire il primo moto della redenzione patria, ma non cominciarlo, salvo uno di quei casi straordinari che non entrano nel giro dei probabili. A chi dunque sta di pigliare le mosse?
La
domanda non era retorica. Ora, per realizzare l'unificazione dei mercati
regionali italiani corrispondenti ad altrettanti Stati dinastici, per uscire
dalla cinta della protezione austriaca e per fare dell'Italia un paese
moderno, occorreva che il sentimento nazionale dei pochi si traducesse in un
fatto politico possibile, in una realtà accettabile e rispettabile: Vincenzo
Gioberti (1801-52), torinese, aveva conosciuto la Giovine Italia, ne aveva
fatto parte e perciò aveva dovuto recarsi in esilio; prima a Parigi, poi a
Bruxelles. Aveva meditato a lungo sull'esperienza mazziniana e s'era andato
sempre più convincendo che la macchina messa su da Mazzini non avrebbe
operato il miracolo. Lo sbaglio dell'esule genovese era forse, secondo
Gioberti, di essere partito troppo dall'alto, di aver cercato fuori dalla
realtà sociale italiana una religione che non era popolare, quando poi questa
religione c'era in Italia, ed era quella della Chiesa cattolica.
Una
volta iniziato il processo al mazzinianesimo, Gioberti lo condusse
spregiudicatamente avanti. Insomma, Mazzini aveva sbagliato perché‚ non
aveva fatto il calcolo realistico delle forze che avrebbero potuto essere
cointeressate al movimento nazionale. Invece di catturarle, le aveva
spaventate. Dov'erano queste forze? Ma era l'uovo di Colombo: i principi
stessi.
Bastava,
dunque, che i principi dei vari stati italiani costituissero una
confederazione presieduta dal papa. Ma v'era un interesse dei principi a
confederarsi, a stringere le loro forze per unificare l'Italia? Secondo
Gioberti, questo interesse esisteva: unendo le loro forze i principi con alla
testa il papa, avrebbero potuto difendersi meglio dallo straniero, avrebbero
rimosso gli ostacoli rappresentati dalle dogane e dalla diversità del le
monete favorendo così lo sviluppo dei commerci e delle industrie. Aggiungeva
quindi significativamente il Gioberti:
Gioverebbe loro il rimuovere i pericoli delle rivoluzioni e l'uscire da quella inquietudine che ora li travaglia, concedendo ai popoli uno statuto civile, che appagherebbe le brame dei più ed assicurerebbe ai diritti di ciascun principe la tutela del concorso reciproco.
Ecco
il grande vantaggio, secondo Gioberti, rappresentato dal suo progetto di
confederare i principi: l'unione del paese si sarebbe fatta rimuovendo "i
pericoli della rivoluzione", cioè un'insurrezione mazziniana delle
sette, delle sommosse popolari. Era insomma, un'unione che conservava le
dinastie regnanti, che salvaguardava il sistema vigente e l'ordine costituito;
un'unione indolore senza rivoluzioni, sociologicamente fondata, per dirla con
le parole di Gioberti, "con le qualità ordinarie degli uomini del (suo)
tempo".
Ma
c’era il problema dell’Austria. Il Gioberti del 1841 pensava che i
principi non potessero fare la guerra all’Austria trovasse più vantaggioso
un giorno interessarsi allo smembramento dell’impero ottomano e qui
indirizzare le sue mire di espansione territoriale piuttosto che rimanere in
Italia.
Il
disegno del Gioberti, confrontato con quello del Mazzini, appariva più
lucido, più spregiudicato e realistico. Non ci sono appelli alla riforma
morale non si chiamano in causa né Dio né l’umanità, il popolo resta
tranquillo. La via dell'indipendenza italiana sembrava facile, conveniente e
adattabile alle qualità delle classi medie italiane, compreso il clero. Il
punto debole era rappresentato dal problema della Chiesa. Non era la Chiesa un
ostacolo a ogni progetto di unificazione italiana? Certa tradizione
storiografica italiana, da Machiavelli a Giannone, non aveva sempre sostenuto
che i papi erano stati i nemici dell'Italia? Non era forse vero che la Chiesa
aveva sempre preferito far ricorso alle armi dello straniero, piuttosto di
perdere i1 suo dominio temporale
a vantaggio dell'unità nazionale? Non era accaduto così dall'epoca dei
longobardi quando il papa chiamò i Franchi per cacciare Desiderio? Questa era
la tesi della tradizione culturale che si definiva ‘ghibellina’, presente
anche nell'ideologia mazziniana.
In soccorso a Gioberti veniva però tutta un'altra tradizione culturale, egualmente robusta, che aveva sostenuto il contrario: la Chiesa aveva salvato l'Italia dall'imbarbarimento, aveva nei secoli bui rappresentato l'unico faro di civiltà, l'unica garanzia di riscatto dall'oppressione dalla schiavitù delle armi straniere. Erano le tesi della letteratura della Restaurazione da Joseph de Maistre a Lamennais, ravvivate pero da una consapevolezza storica che traspariva dagli scritti di Manzoni sulla questione longobarda, dalla Storia d'Italia sotto i barbari di Cesare Balbo uscita nel 1830, dalle opere del napoletano Carlo Troya, a cominciare dalla Storia d'Italia nel Medio Evo, di cui comparve nel 1839 il primo volume L'esplorazione degli archivi, l'erudizione storica, la lettura dei codici concorrevano a sostenere la tesi di questa scuola, che fu detta neoguelfa o anche, più generalmente, cattolico-liberale, per la difesa che fece del ruolo positivo svolto dalla Chiesa nella storia italiana ed europea.
Gioberti
fece propria la tesi neoguelfa, la trasferì dal campo degli studi e del puro
dibattito culturale sul terreno politico, ne fece un'ideologia. I1
neoguelfismo diventava la base del suo disegno politico, dava ad esso una
dignità e una forza, che il calcolo realistico sulle ‘qualità ordinarie’
degli italiani non aveva, in una parola trasformava la riflessione politica
giobertiana, in una alternativa all'idea della ‘ rivoluzione ‘. I1
neoguelfismo voleva dimostrare non solo come la tradizione cattolica non fosse
alleata alla reazione e poteva costituire il fattore risolutivo del processo
di unificazione, ma anche che esisteva una filosofia politica italiana
originale e che, pertanto, non si aveva bisogno di ricorrere ai principi
dell'illuminismo e della rivoluzione francese. Bastava leggere bene nella
tradizione e nella storia politica italiana per scoprirvi la formula idonea
per unire l'Italia, liberandola al tempo stesso dal pericolo del progressismo
radicale e giacobino. Tutto ciò Vincenzo Gioberti sostenne nell'opera Del
primato morale e civile degli italiani, comparso a Bruxelles nel 1843,
un'opera fondamentale, che ebbe un successo strepitoso. I1 Primato, con le Speranze
d'Italia di Cesare Balbo (1844)[1],
ebbe un'influenza grandissima negli orientamenti di quella borghesia moderata,
che tenne nelle proprie mani la causa nazionale anche dopo il fallimento dei
moti e della guerra del 1848.
In
concreto, dalle pagine del ‘Primato’ discendeva la proposta che il papa si
facesse promotore delle riforme nel suo regno, dando l'esempio ai principi, e
che i principi italiani si confederassero in una lega sotto la presidenza del
papa.
La
proposta del Gioberti non riuscì a conquistare la Chiesa, anche se essa
incontrò favore in molta parte del clero. Decisa fu l'opposizione dei
gesuiti, contro cui, del resto, Gioberti si scagliò con particolare veemenza
in un'altra opera, Prolegomeni del
primato morale e civile degli Italiani (1845). Il gesuita Luigi Taparelli
d’Azeglio, fratello di Massimo, (l'autore del romanzo La
disfida di Barletta) respinse l’idea che la Chiesa e il papa potessero
essere messi al servizio di una filosofia nazionale o di un partito politico,
per elevati che fossero i loro scopi La Chiesa, per Taparelli, non poteva
identificarsi con nessuna dinastia e con nessuna nazionalità, proprio per il
suo carattere universale e pastorale La polemica duro a lungo. La questione
del rapporto fra Chiesa e rivoluzione nazionale tormentò Pio IX: gli effetti
di essa si risentirono a lungo nella storia contemporanea italiana, anche dopo
l'unificazione nazionale[2].
Una
serrata critica alle tesi del neoguelfismo fu redatta da Giuseppe
Ferrari (1811- 1876), il quale accusava il Gioberti di voler
condizionare la prospettiva della liberazione nazionale a una tradizione
sostanzialmente reazionaria, come quella del papato. Gli sembrava assurda
l'idea di una filosofia politica, che negasse la validità del patrimonio
della rivoluzione francese. Il rinnovamento italiano, secondo Ferrari, poteva
realizzarsi solo accettando la guida
della Francia e laicizzando la nostra cultura politica[3].
Una attenta considerazione merita il federalismo di Carlo Cattaneo (1801-1869). Ciò che era il papato nella storiografia neoguelfa, erano i comuni nell'opera di Cattaneo. La storia medievale aveva dimostrato che la decadenza nella nostra storia era incominciata quando si era perso il senso del municipio, quando si era cioè perduto il senso dell'autogoverno locale e le città si erano imbarbarite. Spirito concreto e positivo, Cattaneo non si sentiva attratto ne dal misticismo mazziniano, ancorché si definisse repubblicano, ne dal neoguelfismo giobertiano. Egli fu un convinto assertore del progresso scientifico e dello sviluppo industriale; fu animato dall'idea che il vero problema politico fosse quello di formare la coscienza degli italiani all’autogoverno e che le riforme dovessero essere graduali, secondo il concetto della tradizione moderata.
Dopo
il fallimento dei moti del '48,
accentuò il suo riformismo e si dichiarò
per il federalismo. Sospettoso dei Savoia, egli sogno una federazione di
popoli autonomi nell'ambito dell'impero austriaco e ritenne che le riforme
proposte dovessero dare l’avvio ad a federazione di tutte le regioni
italiane.
Nell’insieme,
tutte queste correnti politico-culturali, dalla mazziniana alla neoguelfa alla
federalista democratica, rispecchiavano sentimenti, mentalità e aspirazioni
dei ceti medi, per i quali la lotta per l’indipendenza diveniva sempre più
una premessa necessaria per la loro espansione. Tutte queste tendenze
rientravano nella storia più vasta del nazionalismo, che variamente si
alimentò della letteratura romantica. Esse riflettevano sul piano politico
interessi diversi: quelli della borghesia radicale, che mirava a realizzare,
insieme con l’unità nazionale, anche una riforma democratica dello stato;
quelli della borghesia moderata, che aveva per scopo anche l’unità
nazionale, ma in modo da non turbare l’ordine internazionale garantito dalle
grandi potenze.
Il
limite evidente di queste tendenze fu però il loro carattere prevalente di
ideologia urbana, incapace di legarsi ai problemi del mondo contadino.
[1]
L'opera di Balbo usci a Parigi nel 1844. D'accordo con Gioberti nel
ravvisare nella Chiesa un faro di civiltà considerava che la confederazione
dei principi con il papa alla testa non potesse attuarsi fino a quando
l'Austria dominava il Lombardo-Veneto. Il destino dell’Austria era di
fungere da antemurale, da baluardo della cristianità contro la pressione
russa: L'Austria, alla prima occasione, poteva ingrandirsi a spese
dell'impero ottomano, rafforzare la sua funzione antirussa e lasciare
l'Italia. Una volta distratta l'Austria dalla
penisola, il Piemonte si sarebbe unito al Lombardo-Veneto formando un
unico regno. Poste queste premesse, si sarebbe potuto parlare di
confederazione. Lo schema era ancora, sostanzialmente, quello moderato del
Gioberti: elementi nuovi erano la valorizzazione della funzione storica
dell'impero asburgico e il ruolo di promozione assegnato al Piemonte nel
processo graduale che avrebbe condotto all'unificazione italiana.
[2]
Per avere il quadro completo delle correnti patriottiche italiane prima del
1848, occorre ricordare anche quelle che hanno avuto una singolare rilevanza
nella storia della cultura politica e religiosa del nostro Risorgimento.
Anzitutto va ricordata l'opera del roveretano Antonio Rosmini (1797-1855), Delle
cinque piaghe della Santa Chiesa, uscita nel 1848, dove si affrontano i
problemi di una riforma religiosa e giuridica della Chiesa: ritorno al
metodo della prima cristianità, che eleggeva i vescovi; restituzione ai
fedeli dei poteri di controllo sull'amministrazione dei beni ecclesiastici;
le rendite di questi beni dovevano essere destinate a finalità caritative;
adottare l'italiano nella liturgia. Sui temi politici invece indugio il
dalmata Niccolò Tommaseo (1802-1874) nell’opera Dell’Italia
(1835), dove si auspicava la liberazione dell'Italia per iniziativa popolare
e in nome di un cattolicesimo tornato alle origini evangeliche: insomma, lo
schema giobertiano democratizzato. Queste posizioni derivavano tutte dal
pensiero del cattolicesimo liberale francese, da Montalambert a Lacordaire;
soprattutto dalla formula Dio e popolo dell'ultima fase evolutiva di
Lamennais, il quale fu amicissimo del Tommaseo. Chi, invece, insistette
sull’importanza delle riforme costituzionali all'interno degli stati fu
Massimo d'Azeglio nell'opuscolo Degli
ultimi casi di Romagna, che prese lo spunto dai moti scoppiati in
Romagna nel settembre del 1845. Sulla stessa linea di questo moderatismo
riformatore troviamo Giacomo Durando (1807-1894) con il volume Della
nazionalità italiana (1846).
[3]
Altri scrittori che contestarono la validità dello schema giobertiano e che
adottarono i giudizi della tradizione ghibellina sul papato furono G. B.
Nicolini, M. Amari, F. D. Guerrazzi.