Teorie interpretative del fenomeno – Iniziamo questo argomento esponendo alcune teorie che i ‘classici’ della sociologia hanno formulato per spiegare il fenomeno ‘rito’; questo excursus ha lo scopo di fornirci alcuni principi teorici validi per l’affronto del tema.

Leggendo le opere di E. Durkheim notiamo subito che il fenomeno del rito deve essere compreso all’interno della sua componente ‘sociale’ del fatto religioso. La religione, secondo questo autore, nasce dal sentimento di solidarietà che tiene unito un gruppo e che si esprime, come rappresentazione simbolica, nella realtà del totem. Il totem è qualcosa di separato dalla sfera del quotidiano, sostituisce un interdetto, un tabù; è da questa concezione che nasce la nozione di ‘sacro’. Ma la coscienza totemica provoca il sorgere di miti e di riti che hanno la funzione di esprimere l’assoluta alterità del totem. i riti sono pertanto “delle regole di condotta che prescrivono all’uomo come deve comportarsi con le cose sacre” (Les formes élémentaires de la vie religieuse, Paris, 19604, p. 56); mentre il culto non è altro che la sua ripetizione periodica. La funzione del rito, sempre secondo Durkheim, è duplice: sociale. come regolatrice delle credenze (in questo senso le azioni rituali sono rappresentazioni collettive) e individuale, per la sensazione di benessere che provano i partecipanti in quanto ricostituiscono il loro essere morale (op. cit., p. 513).

La funzione del rito anche secondo Bronislav Malinowski è di carattere sociale. Questo studioso di origine polacca afferma infatti: “ogni comportamento rituale, sia esso un funerale o un rigodi lutto, ovvero una cerimonia commemorativa e un sacrificio, o anche una rappresentazione magica, è sociale. (…) Il rituale è anche sociale nel senso che il fine da ottenere, l’integrità del gruppo dopo la morte, l’evocazione della piaggia e della fertilità, o di una ricca retata nella pesca o nella caccia, o di una spedizione marina fortunata, concerne gli interessi non di una sola persona, ma di un gruppo (Sex, Culture and Myth, London, 1963, p. 240).

J. Cazeneuve ci offre un’indagine approfondita del rito, sarà bene soffermarsi su questo autore. Il presupposto da cui egli parte è l’universalità del rito per arrivare a definirlo così: “un atto che si ripete e che possiede un’efficacia, almeno in parte, di ordine metaempirico” (Les rites et la condition humaine, Paris, 1957, p. 2). la prima caratteristica che ricaviamo da questa definizione di rito è quindi quella della fissità, della staticità di alcune formule orali che compongono il rito, di alcuni gesti, di criteri omogenei nella scelta del luogo e del tempo. la seconda caratteristica consiste nell’appartenenza del rito al piano metaempirico. Ma la terza caratteristica è data dal fatto che il rito deve porsi necessariamente in dialettica con il fatto sociale: esso potrà essere un modo per vivere più profondamente la società (cfr. E. Durkheim), oppure potrà rifiutare la socialità, ma non potrà assolutamente essere indifferente, in quanto la socialità è un fatto quasi istintivo per l’uomo (è uno pseudo – instinct). Questo rapporto dialettico fra rito e società sorge dal fatto che la coscienza dell’individualità, proprio questa coscienza che contraddistingue l’uomo dall’animale, è da un lato la fonte d’angoscia e quindi deve essere emarginata, dall’altro affascina e quindi si impone. Da questa ambivalenza – insita nell’uomo – fra individualità e socialità nasce la triplice distinzione fra tabù, magia e religione.

Nella concezione di E. De Martino l’essere dell’uomo non è assoluto, si tratta piuttosto di un ‘esserci’ (cfr. “Mito, scienze religiose e civiltà moderna”, in Nuovi argomenti, 27 / 1958), di un essere come presenza nel mondo che si fa attraverso la costituzione di orizzonti storico – culturali determinati. di fronte al rischio del “tutt’altro” come irrompere del “cattivo passato” o come rischio di soccombere alla situazione, quando l’angoscia del divenire si accumula, le azioni rituali hanno la funzione di porre ordine nel cosmo ricompiendo misticamente la creazione del mondo, di superare l’angoscia esistenziale per mezzo di una comunione con  gli dei. De Martino giustifica la presenza dei rituali (magici) con il fatto che nelle culture primitive l’esserci dell’individuo era ancora una scelta da compiersi, un atto di volontà e non un dato di immediata evidenza come invece è considerato dalla nostra esperienza esistenziale. Era l’epoca in cui una cultura diversa dalla nostra si trovava impegnata nello sforzo di fondare  l’individualità, la presenza, l’esserci nel mondo, per cui ciò che per noi è un dato del tutto ovvio, a quel livello era ancora in fieri e maturava come risultato. Tali istituzioni culturali rappresentano per questo autore un processo di destorificazione nel senso di un processo di alienazione da un sé angosciante e nel senso di un processo che consente di stare nella storia “come se” non ci si stesse. Infatti nel tempo ciclico, quale è quello dell’espressione mitico – rituale, viene assunto e ricompresso il tempo della crisi e all’interno di un orizzonte istituzionale “ciò che rischia di tornare nell’estraneità di un simbolo cifrato – situazione limite in cui l’essere rischia di non essere- è creato e fato tornare per essere ripreso nel processo di valorizzazione e per essere così reintegrato nel tempo storico e culturale della decisione” (La fine del mondo, Torino, p. 221).

Secondo M. Eliade l’uomo primitivo viveva il dualismo tra il mondo profano, quello della quotidianità, in cui era costretto a vivere e quello sacro, proprio degli dei, tempo costitutivo della realtà perché in esso era stato creato l’universo e quindi era stato assegnato un significato all’intero cosmo; il tempo sacro era un illud tempus originario, immagine di assoluta perfezione, fondazione ontologica di ogni tipo di realtà umana. Il mito, secondo l’Eliade, è il modo con il quale l’uomo delle culture a livello etnico entrava in contatto con questa realtà divina. Questa rinascita ovviamente ha un valore anche nella vita dell’individuo e della società; anzi, la modalità di pensiero sopra esposta ha ragion d’essere proprio nella sete di perfezione tipica dei nostri lontani progenitori e ancora operante in noi. È sempre l’evento mitico che rende possibile la durata profana di eventi storici: in molte cosmogonie sono gli dei che insegnano i modi di produzione di beni di consumo e che in illo tempore hanno fornito anche gli attrezzi di lavoro. Il rito non è altro che la ripetizione degli avvenimenti accaduti in quel tempo al di fuori del tempo storico (cosmogonia). Secondo questo autore anche in un tempo secolarizzato come il nostro il mito (e quindi anche il rito) è ancora operante in esperienze apparentemente secolari: superstizioni, tabù, tecniche psicoanalitiche, ‘liturgie’ laiche (manifestazioni politiche, …).

 

Sistema simbolico – rituale e dinamica sociale – In queste brevi osservazioni si comprende che il sistema simbolico – rituale si profila come la fonte da cui poter derivare e comprendere l’interazione sociale. Esso rappresenta il punto di transizione dalla dimensione psichica a quella sociale, dall’inconscio personale / collettivo alla coscienza personale / collettiva. Il mito e il rito, pur avendo origine da un fatto fondamentalmente antropologico – che consiste nel trascendimento della natura biologica da parte dell’organismo umano – si sviluppano attraverso processi sociali che realizzano la costruzione e l’assimilazione di un sistema di significato quale oggettiva concezione del mondo. Tale sistema di significato, pur non appreso dall’individuo come sistema, agisce come un elemento costitutivo l’identità personale grazie al quale un passato e un futuro individuali vengono integrati in una biografia coerente in cui la persona colloca si stessa in relazione ai suoi simili, all’ordine sociale e all’universo come trascendentale. Il sistema simbolico si fonda quindi su una contrapposizione tra una realtà contingente e l’esperienza di una valore vissuto come personale, ma che trascende nel contempo il singolo. Tale realtà trascendente, mancando di una specificazione empirica, trova nei simboli la via naturale per esprimersi. Il simbolo sarebbe non un sostituto, ma un anello di giuntura tra una realtà nascosta e una manifesta e rappresenterebbe un modo conoscitivo – espressivo dell’ultima realtà, procurando anche una modalità per affrontarla. Il momento rituale in particolare è quello che segnala la modalità di passaggio da una realtà ad un’altra.Esso è il luogo in cui sono espresse e rafforzate le credenze e i simboli che incorporano le rappresentazioni collettive; il rito non comporta solo una ripetitività, ma la possibilità di una continua ri – creazione del processo sociale nel senso della solidarietà e dell’integrazione. Queste necessitano di espressioni simboliche e dell’attuazione rituale per essere interiorizzate. I riti collettivi, le celebrazioni civili e religiose, che interessino un gruppo ristretto piuttosto che l’intera società, rappresentano il più consistente punto di resistenza poiché su di esso si fonda la solidarietà di un gruppo, di una famiglia o di un credo religioso (cfr. D’Agostino, “Il rituale e la festa” in Rivista italiana di sociologia, n° 4 / 1978). Gli oggetti, i miti, i riti sono assunti come depositari di un potere salvifico. Essi significano il bisogno umano di trascendere la propria routine quotidiana e la ricerca di una legittimazione, religiosa o meno, dell’appoggio di un ordine più alto per costruire un’unità; un’armonia della realtà. Intorno a tale dinamica si struttura la sfera del sacro che, pur mantenendo la sua centralità nella dinamica sociale, soggiace a differenziazioni relative alle linee evolutive dell’umanità. Così, se lo stadio primitivo è contraddistinto da una percezione simbolica del mondo come totalità, i cui il soggetto è pienamente incluso, lo stadio contemporaneo è contraddistinto dalla frammentazioni e dall’alienazione: l’uomo è diviso in sé, dal mondo sociale e cosmico. Il sacro non si mantiene più attraverso i canali istituzionali, la sua sfera si allarga nell’inconscio a livello collettivo e si rivela nella sub – culture giovanili e della classe media, nei movimenti religiosi, …

 

Caratteristiche e senso del rito oggi -  Come abbiamo visto nelle osservazioni precedenti, il rito svolge una duplice funzione di integrazione: con il sacro, permettendo di superare il senso di smarrimento di fronte al caos, e con la società (cfr. E. Durkheim). Orbene, queste funzioni sono sempre valide: il rapporto con Dio non può mai essere puramente intellettuale, nemmeno nell’esperienza mistica, ma ha bisogno di mediazioni simboliche e gestuali (cfr. la voce ‘Liturgia’), in secondo luogo nell’esperienza religiosa è indispensabile una coesione di gruppo, un sentirsi membri della comunità, un sentirsi intimamente uniti con i compagni.

Entrando in campo antropologico – culturale (quindi non necessariamente religioso) bisogna rilevare che il rito è il luogo in cui si vive il simbolismo in tutti i suoi aspetti di immaginazione, di gestualità, di affettività e non è proprio ciò che manca al giorno d’oggi per ricomporre l’unità di personalità frantumate da una cultura scientista come la nostra? Inoltre il rito è proprio il luogo dove si ‘rievoca’ la perfezione di un mondo originario, di una creazione perfetta, modello di ogni esperienza esistenziale; svolge pertanto la funzione di sprone a rifare il mondo, a rinnovare il creato, anche in campo politico (è il caso di certi messianismi del Terzo Mondo; cfr. V: Lanternari, Movimenti religiosi di libertà e di salvezza dei popoli oppressi, Milano, 19742).

 

Rito e cristianesimo – Il rito vissuto in un’esperienza di fede in Cristo acquista una diversa significazione,tanto è vero che alcuni teologi preferiscono sostituire il termine ‘sacramento’ a quello di ‘rito’; ne fa fede, per esempio, J. Gelinau (“Problèmes sacramentaires”, in La Maison – Dieu, 119 (1974), p. 64):

 

Il sacramento è sempre contestatario nella sua radice. Contestatario anche del proprio rituale. Questa tensione sembra non scomparire mia. Da una parte il rito è un mezzo di coesione sociale? Ma dall’altra non si può, nello stesso tempo, dimenticare che il sacramento, per sua natura, poiché significa la morte e la resurrezione di Cristo. è la perpetua contestazione di tutto, compreso il rituale stesso che l’esprime.

 

Non entriamo nel merito della questione terminologica, notiamo però che questa citazione ci fa comprendere che il rito in una prospettiva di fede deve essere compreso in chiave cristologia: non si tratta di svolgere azioni sacre aventi scopo di ingraziarsi la divinità, bensì quello di comunicare con l’historia salutis voluta da un Dio buono a favore dell’umanità e che ha vissuto il suo culmine e la sua completezza nel mistero pasquale, ma si tratta invece di rispondere a una vocazione continua, rendendosi conto che ciò che l’uomo celebra nel rito non è mai realizzato, ma attende il suo compimento alla fine dei tempi (dimensione escatologica del rito cristiano).

 

Bibliografia – R. Bastide, Il sacro selvaggio, Milano, 1977; J. Cazeneuve, Les rites et la conditions humaine d’après des documents ethnographiques, Paris, 1958 ; Id., Sociologia del rito, Milano, 1974 ; E. De Martino, “Mito, scienze religiose e civiltà moderna”, in Nuovi argomenti, 37 / 1959; Id., Il mondo magico, Milano, 1948; Id., Morte e pianto ritualenel mondo antico, Torino – Milano, 1958; A. Di Nola, La voce “Rito” nell’enciclopedia  delle religioni, Firenze, 1970 ss, vol. V, coll. 428 – 440; E. Durkheim, Le forme elementari della vita religiosa, Roma, 1973; M. Eliade, Le mythe de l’éternel retour, Paris, 1969; Id., Il sacro e il profano, Torino, 1967; id., Trattato di storia delle religioni, Torino, 1957; B. Malinowsky, Sex, Culture and Myth, London, 1963; A. Rizzi, La voce “Rito” nel Dizionario teologico interdisciplinare, Torino, 1977, vol. III, pp. 136 – 148; V. Turner, Il processo rituale, Brescia, 1972.