Buon Natale
24 dicembre 2024Osserva il gregge …
10 dicembre 2017Osserva il gregge che pascola davanti a te: non sa che cosa sia ieri, che cosa sia oggi: salta intorno, mangia, digerisce, salta di nuovo. È così dal mattino alla sera e giorno dopo giorno, legato brevemente con il suo piacere ed il suo dispiacere, attaccato cioè al piolo dell’attimo e perciò né triste né annoiato … L’uomo chiese una volta all’animale: “Perché mi guardi soltanto senza parlarmi della felicità?” L’animale voleva rispondere e dice: “Ciò avviene perché dimentico subito quello che volevo dire” – ma dimenticò subito anche questa risposta e tacque: così l’uomo se ne meravigliò. Ma egli si meravigliò anche di se stesso, di non poter imparare a dimenticare e di essere sempre accanto al passato: per quanto lontano egli vada e per quanto velocemente, la catena lo accompagna. È un prodigio: l’attimo, in un lampo è presente, in un lampo è passato, prima un niente, dopo un niente, ma tuttavia torna come fantasma e turba la pace di un istante successivo. Continuamente si stacca un foglio dal rotolo del tempo, cade, vola via – e improvvisamente rivola indietro, in grembo all’uomo. Allora l’uomo dice “Mi ricordo”.
Friedrich Nietzsche, Considerazioni inattuali
L’anima
23 novembre 2014“Se nel mondo ci fossero queste due cose, da un lato l’intelletto dall’altro il corpo, ma mancasse l’anima, allora né l’intelletto sarebbe attratto verso il corpo – infatti l’intelletto è del tutto immobile e privo dell’affetto, principio del movimento, ed anche assai lontano dal corpo-, né il corpo sarebbe attratto verso l’intelletto, in quanto incapace e inetto a muoversi da sé e molto distante dall’intelletto. Ma se si pone in mezzo l’anima che è conforme ad entrambi, facilmente ci sarà l’attrazione reciproca dall’una e dall’altra parte.”
M. Ficino, I pianeti, 1
70° della morte di Giovanni Gentile (15 aprile 1944)
14 aprile 2014La verità! Essa è eterna, e quando spunta all’orizzonte dell’umano pensiero, nessuno che ne senta il pregio e l’essenza, può pensare che essa allora nasca e verrà giorno in cui debba anche lei morire.
G. Gentile
Scuola, la retromarcia sul digitale
13 febbraio 2014di Corrado Zunino
fonte: La Repubblica, 12 febbraio 2014
In Italia arranchiamo sulla banda larga in classe e l’acquisto delle costose (e da sostituire dopo pochi anni) lavagne digitali, ma nel mondo si assiste a una larga retromarcia sul digitale a scuola, il digitale come strumento didattico, il digitale come supporto necessario. Dove la scuola digitale è stata ampiamente sperimentata – in Inghilterra, in Argentina, in quella Corea del Sud che offre gli studenti migliori, secondo i risultati dei test Ocse-Pisa – si torna indietro: si sono dimostrati, qui, legami tra l’utilizzo continuo del personal computer e l’abbassamento del rendimento scolastico.
La filosofia nasce dalla vita
2 giugno 2013La filosofia, come si sa – ma non sempre si ricorda –, nasce dalla vita; e non perché, soltanto, più o meno vivace, è essa stessa un atto di vita; e non come qualsiasi altro problema o posizione di pensiero, che anch’essi, evidentemente, non possono costituirsi se non nella vita e per qualche interesse umano; ma in modo ed a titolo di preminenza e di universalità: giacché essa abbraccia e attira a sé tutta quanta la vita, o, se par meglio, la vita stessa nella filosofia si abbraccia, facendosi oggetto si se medesima e così facendosi vita nuova.
G. Bontadini, Saggio di una metafisica dell’esperienza, I, 1
La follia e la sapienza: il viaggio dei greci ai confini dell’anima
24 marzo 2013di Eva Cantarella
Fonte: Corriere della Sera 5 maggio 2010
Come scrive Eraclito in un suo famoso frammento: «Per quanto tu cammini per ogni via, i confini dell’anima non li troverai». Per i Greci la follia fu appunto un mezzo per esplorare questi confini. Ma la nozione di follia (manìa) andava oltre la dimensione della patologia. «La follia è tanto superiore alla sapienza (scriveva Platone nel Fedro) in quanto la prima viene dagli dei, la seconda dagli uomini». Non tutte le forme di follia, s’intende: solo la follia che giunge «per dono divino». Ma qual è questa «divina follia»?
Platone lo spiega poco dopo: quella del poeta ispirato che scopre in sé improvvise energie creative, quella del profeta che spinge lo sguardo nell’invisibile, quella di Dioniso che consente di entrare in uno stato mentale che i Greci definivano estasi, in cui un uomo percepisce di avere «un dio dentro di sé», e infine («la migliore di tutte» precisa Platone) la follia di Amore, che porta l’anima vicino alla sua vera natura. Così, per i Greci la follia assumeva una duplice faccia: da un lato malattia della mente, dall’altro potenziamento della personalità. Per i Greci del V secolo a.C. era un’ alterazione della psiche. Ma il significato di psyche era in origine diverso. In Omero, la psiche era il soffio vitale che al momento della morte abbandonava il cadavere. La concezione di psiche come «anima» o «mente» si sviluppò a seguito di un’ evoluzione alla quale contribuirono correnti religiose e saperi laici (in particolare filosofia e medicina). Alla fine, la psiche divenne la realtà interiore in cui si concentra la vera identità di un individuo: una concezione che da Platone passa al Cristianesimo. Nella Grecia arcaica l’alterazione della coscienza aveva uno spazio importante nella dimensione della religione, all’ interno di istituzioni come il santuario di Apollo a Delfi, ove si praticava la divinazione estatica; o nei rituali di trance, di cui il culto di Dioniso rappresenta solo l’aspetto più noto e impressionante. Fu la cultura del secolo illuminista di Pericle e di Socrate a separare dalla sfera della conoscenza una serie di esperienze di confine quali la possessione, l’estasi e altri stati subliminali, per relegarle nel limbo delle manifestazioni irrazionali. A partire da allora, ragione e follia iniziarono a essere considerati aspetti alternativi della personalità: ogni uomo – scrive Platone – combatte una guerra contro se stesso e spesso a perdere è la ragione. Per i Greci, però, la follia non era solo il sonno della ragione: era anche un mezzo per esplorare le manifestazioni estreme e inquietanti della natura umana. Tutto ciò che di più insondabile e oscuro si agita nell’ anima di un essere umano è tra i temi centrali della tragedia: il dramma di Eracle o di Medea che uccidono i figli pur amandoli, la violenza autodistruttiva di Aiace, i fantasmi di Oreste e di altri personaggi ai quali si può applicare la frase di Sofocle: «Un bene sembra un male a un uomo la cui mente è accecata da un dio». A differenza di quanto sarebbe accaduto nella società europea moderna, la Grecia non conobbe la reclusione dei folli: i greci seppero convivere con loro, elaborando forme di controllo dell’ alienazione mentale all’ interno della società, attraverso la reintegrazione e non l’esclusione. L’organizzazione logica, scientifica ed etica dell’ esperienza – la gloria della Grecia – nacque per confronto col mondo ella non ragione. Dal mito al logos: questa è una delle tradizionali chiavi di lettura della civiltà greca, ma si tratta di una semplificazione. In realtà mito e logos sono intrecciati lungo il percorso di quella cultura, come pure ragione e follia. Sono profonde le fratture nella storia della follia in Occidente, sono molte e molto interessanti le cose che racconta Giulio Guidorizzi in questo bel libro, il primo in italiano a tracciare una storia della follia nel mondo greco (Ai confini dell’ anima. I greci e la follia, Raffaello Cortina editore, pp. 225, 19): un libro che stimola importanti riflessioni non solo sull’ antichità, ma anche sul presente, su di noi e il nostro rapporto con la follia.
La vera sapienza
3 febbraio 2013“Vi sono cinque stimoli che possono incitare l’uomo alla scienza:
Vi sono uomini che vogliono sapere per il solo gusto di sapere: è bassa curiosità.
Altri cercano di conoscere per essere conosciuti: è pura vanità.
Altri vogliono possedere la scienza per poterla rivendere e guadagnare denaro ed onori: il loro movente è meschino.
Ma alcuni desiderano conoscere per edificare: e questo è carità; altri per essere edificati: e questo è saggezza”
(San Bernardo. Sermone XXXVI sul Canto dei Cantici)
L. Einaudi (1913) – LA CRISI SCOLASTICA E LA SUPERSTIZIONE DEGLI ORARI LUNGHI
21 ottobre 2012(Dal Corriere della Sera, 21 aprile 1913).
… Da vent’anni a questa parte le ore di fiato messe sul mercato dai professori secondari sono andate spaventosamente aumentando. Specie nelle grandi città, dalle 10 a 12 ore settimanali, che erano i massimi di un tempo, si è giunti, a furia di orari normali prolungati e di classi aggiunte, alle 15, alle 20, alle 25 e anche alle 30 e più ore per settimana. Tutto ciò può sembrare ragionevole solo ai burocrati che passano 7 od 8 ore del giorno all’ufficio, seduti ad emarginare pratiche.
A costoro può sembrare che i professori con le loro 20-30 ore di lezione per settimana e colle vacanze, lunghe e brevi, siano dei perditempo. Chi guarda invece alla realtà dei risultati intellettuali e morali della scuola deve riconoscere che nessuna jattura può essere più grande di questa. La merce «fiato» perde in qualità tutto ciò che guadagna in quantità. Chi ha vissuto nella scuola sa che non si può vendere impunemente fiato per 20 ore alla settimana, tanto meno per 30 ore. La scuola, a volerla fare sul serio, con intenti educativi, logora. Appena si supera un certo segno, è inevitabile che l’insegnante cerchi di perdere il tempo, pur di far passare le ore. Buona parte dell’orario viene perduto in minuti di attesa e di uscita, in appelli, in interrogazioni stracche, in compiti da farsi in scuola, ecc., ecc. Nasce una complicità dolorosa ma fatale tra insegnanti e scolari a far passare il tempo, pur di far l’orario prescritto dai regolamenti e di esaurire quelle cose senza senso che sono i programmi. La scuola diventa un locale, dove sta seduto un uomo incaricato di tenere a bada per tante ore al giorno i ragazzi dai 10 ai 18 anni di età ed un ufficio il quale rilascia alla fine del corso dei diplomi stampati. Scolari svogliati, genitori irritati di dover pagare le tasse, insegnanti malcontenti; ecco il quadro della scuola secondaria d’oggi in Italia.
Non dico che la colpa di tutto ciò siano gli orari lunghi; ma certo gli orari lunghi sono l’esponente e nello stesso tempo un’aggravante di tutta una falsa concezione della missione della scuola media …”.
http://www.archive.org/stream/gliidealidiuneco00eina/gliidealidiuneco00eina_djvu.txt
Per un made in Italy dell’istruzione
2 gennaio 201230/12/2011
Retescuole
Claudisa Fanti
fonte: FLC – CGIL
Mentre il governo in carica si affanna per riportarci almeno a galla, noi della scuola non sappiamo quale sia il nostro destino e quello delle nostre fatiche per reggere l’impatto del tempo tiranno in cui viviamo.
Eppure a qualcuno di noi piace ancora pensare a un futuro auspicabile nel quale sarà possibile insegnare e apprendere nel rispetto di ogni singolarità, umanità. Un rispetto che tenga conto dei volti delle persone che ci guarderanno dai banchi, nei corridoi spogli, nelle aule, nei laboratori. Ecco, mi piacerebbe che quando si scrive o ragiona di scuola, lo si facesse senza definire per categorie la cosiddetta utenza: i giovani, le famiglie, i disabili, gli stranieri…mi piacerebbe che si decidesse di “vedere” le persone e le loro infinite modalità di approccio all’esistente, al sapere, al quotidiano vivere.
La scuola dovrebbe essere tenuta al riparo da ciò che si definisce con il termine “pubblico” e da ciò che le manovre finanziarie ritengono di dover fare per ridimensionare, tagliare, diminuire anziché aumentare. E non importa che altre nazioni sappiano risparmiare, perché è proprio questa l’ora in cui non si dovrebbe risparmiare sull’istruzione, ma pensare alla sua dimensione espansiva. Le persone sono chiamate a fare sacrifici. Eppure perfino per reggere i sacrifici ci vuole una solida base culturale costruita con sapienza ed equilibrio.
E questo saper reggere non si impara dall’oggi al domani. Si apprende strada facendo con l’attitudine al lavoro di squadra, alla riflessione, con l’amore per il bello che si oppone al bello imposto dai consumi.
Perfino per incassare senza reagire con violenza a una manovra finanziaria durissima ci vuole una scuola che alleni in modo colto e arguto all’argomentazione, all’ironia, alla critica, al pensiero divergente.
Questa scuola non c’è da nessuna parte, né in Germania, né in America, né In Francia… e…neppure in Italia.
Ma in Italia ci potrebbe essere eccome: si pensi ai secoli di cultura, arte, bellezze, creatività che abbiamo alle spalle. Abbiamo mai veramente tenuto in seria considerazione ciò che siamo stati, le nostre origini? Ogni governo che si è succeduto, ogni ministro della pubblica istruzione non ha incentrato il proprio lavoro sul patrimonio e sulla storia specificamente italiana. Nessuno. Ci si è limitati a costruire programmi, Indicazioni, a trovare obiettivi e finalità per formare un cittadino al passo coi tempi contestuali guardando sempre a modelli esterofili.
Eppure non è così che si crea qualcosa che vada a sostenere la peculiarità italiana e la sua esigenza di far emergere la propria diversità in Europa.
Dovremmo pensare a una scuola media e superiore che in continuità con gli ordini che le precedono puntino in particolare (in forma strutturale e non come un qualche progetto sperimentale avulso dal lavoro ordinario e quotidiano) a valorizzare il patrimonio e a usare le materie in modo assolutamente finalizzato a sviluppare reti di esse: fra matematica e arte, fra lingua e matematica, fra storia e arte, fra geografia (andrebbe potenziata) e turismo, fra turismo e arte, fra lingua straniera e letterature, fra educazione tecnica e arte, fra geometria e architetture, fra lingua italiana e latina, fra latino e filosofia, fra filosofia, arte, ambiente, scienze naturali e natura in senso lato.
Dovremmo pensare a qualcosa di spiazzante che includa il valore che diamo quasi soltanto noi in Europa alla persona, qualsiasi siano le sue potenzialità, per mostrare all’Europa che c’è un’Italia che collabora con i propri specifici apporti, ma non subisce le peculiarità altrui. Un’Italia competitiva sul piano della cultura è quello che un governo dovrebbe costruire utilizzando ogni precario, ogni educatore, ogni docente anziano disponibile, ogni professionalità a disposizione, ma anche liberando, in modo assolutamente gratuito, l’accesso per le scuole ai musei, ai monumenti, a qualsiasi opportunità offra l’ambiente intorno. Proprio nel momento in cui la crisi si fa più pesante, si dovrebbe spendere per mostrare ai propri cittadini che non si viene meno alla tutela della cultura dei figli di tutti. Proprio in questo momento, più grande dovrebbe essere lo sforzo affinché le scuole di ogni ordine e grado non venissero ridimensionate, bensì incentivate, anche economicamente, per inventare nuove strade, nuovi percorsi culturali e metodologici al fine di reagire al degrado e alla disperazione dei suicidi (mi riferisco agli ultimi tragici avvenimenti umani di cui siamo stati impotenti spettatori).
Insegnare a diventare maestri di se stessi ad ogni persona con la quale ogni insegnante viene a contatto dovrebbe essere lo scopo di qualunque ricerca pedagogica, ma anche di scelte ministeriali, affinché ciascuna persona possa trovare dentro di sé la forza e le energie per dare qualcosa di prezioso alla società tutta. Ecco, insegnare a diventare maestra/o di se sessi è la sfida più grande e utile per ognuno e per la collettività.
Per realizzare questo, è chiaro che ogni ordine di scuola deve fare la propria parte abbandonando proprio gli idoli contemporanei della meritocrazia, andando verso una dinamica di classe e di istituto che apra la propria visone e con ampio respiro dia l’accesso alle proposte culturali che emergono sia dagli stessi alunni, sia dal mondo esterno dei media, dei quotidiani, dei musei, di Internet, ecc… Occorre che compiti in classe, interrogazioni e voti siano la parte minore dell’insegnamento, che venga ridimensionato il loro ruolo a favore della pedagogia conversazionale, della pedagogia della ricerca sul campo, della ricerca-azione, della scoperta in luogo della trasmissione, dell’accesso ai libri e alle biblioteche, in luogo del libro di testo che pure può servire come base da cui partire. Occorre che alunni e alunne possano usufruire durante la giornata extrascolastica di laboratori di lingua straniera, teatrale, scientifica, artistica (nel senso più ampio: musica, danza, scultura, artigianato, …) come e quando lo desiderano. Occorre che la scuola venga data alle mani dei giovani nella gestione di laboratori e idee da sperimentare e da proporre. Occorre che si capovolga il sistema: che ogni alunno/a senta la responsabilità del proprio apprendimento, che si renda conto che le potenzialità, lo stile, le modalità dell’apprendere e della costruzione del proprio futuro sono nelle sue mani. Occorre che gli insegnanti prendano atto di essere sapienti mediatori, accompagnatori, esploratori della realtà mutevole insieme con gli alunni e le alunne. La lezione frontale, che pure è utilissima per coordinare e informare, va superata, così come la rigida scansione alle medie e alle superiori di orari, materie ognuna a se stante, ognuna con il suo rituale di spiegazioni e verifiche, di compiti a casa il più delle volte non eseguiti o mal eseguiti. Occorre risolvere la questione annosa del tempo tiranno in favore di una didattica che punti sull’approfondimento e non sulla fretta e sulla quantità. In particolare bisogna evitare la canalizzazione precoce verso un mercato che restringerebbe le possibilità del singolo di autoconoscere le proprie tendenze e potenzialità nei vari campi del sapere e del saper fare.
Le generazioni a confronto non si devono fronteggiare, bensì incontrare sul piano delle diverse competenze, anche se con responsabilità distinte.
Occorre oggi più di prima che il Ministro si accorga che il problema della dispersione non si affronta richiamando all’uso della tecnologia che pure è utilissima, bensì con l’incentivare le attività che vedono insegnanti e alunni lavorare senza i lacci e i laccioli delle continue verifiche e dei punteggi. Occorre che si renda conto che le personalità degli alunni all’uscita dalla scuola elementare entrano in conflitto con un modo di concepire la scuola da parte degli adulti che è in contrasto con il loro desiderio di autonomia, di espressione, di creatività, di porre domande e ottenere risposte alla cui formulazione essi possano partecipare. Lo studio oggi è dinamico, fluido, in movimento. Oggi, la scuola può introdurre a qualsiasi mondo del sapere, in maniera più immediata con l’utilizzo sapiente di Internet. Poi può chiamare al rigore nell’apprendimento accompagnando i ragazzi e le ragazze a un lavoro di studio sulle tematiche scaturite in molteplici modi che coinvolgano essi stessi alla cooperazione e alla solidarietà fra i diversi stili di apprendimento e le differenti aspirazioni sia nella produzione di riflessioni personali, sia nella produzione di materiali, sia nell’organizzare forum, conferenze, scambi di vedute, aperture verso il mondo esterno con esperti in ogni campo. Si pensi ad esempio a un interscambio tra gli studi dei ricercatori dei dipartimenti di facoltà con quelli di giovani studenti delle superiori motivati ad arricchire le proprie conoscenze in ogni ambito.
Ma non basterebbe fornire di un tablet ogni banco! Assolutamente non basterebbe, se l’operazione non fosse accompagnata da un incentivare l’allontanamento dalla concezione che vede la scuola ingessata in rigidi sistemi di valutazione, i quali per loro natura impongono giudizi e voti a breve termine. Volere una scuola italiana, in stile storicamente italiano invece vuol dire renderla simile alle botteghe artigiane nelle quali l’apprendista si misura con la materia e con l’esperienza dei vecchi maestri per poi rielaborare, ricreare, arricchire di valore aggiunto con il lavoro gomito a gomito con il maestro e con i maestri di altre botteghe in una catena di magisteri che costantemente si rinnovano.
Occorre non temere di spendere affinché le classi siano gruppi numericamente ridotti, non di livello, bensì classi comunità nelle quali gli inclusi possano essere di stimolo gli uni agli altri nel rispetto delle diverse abilità, capacità e ruoli che i gruppi stessi si danno.
Addio a Hillman
29 ottobre 2011di Silvia Ronchey
Fonte: La Stampa
28/10/2011
«James è morto questa mattina a casa, a Thompson. È rimasto fedele a se stesso fino alla fine». Così, dal Connecticut, in un messaggio email indirizzato ai famigliari e agli amici più stretti, Margot McLean ha annunciato ieri la scomparsa di suo marito, James Hillman. Il grande psicanalista americano, nato a Atlantic City 85 anni fa, era da tempo malato di cancro. In un altro messaggio di pochi giorni fa la moglie aveva informato che «James ci sta lasciando con magnifica grazia», e in un altro ancora aveva scritto che «parla in molte lingue, a volte per tutta la notte.
Sorride e continua a essere incredibilmente spiritoso».
Lo psicanalista e filosofo americano James Hillman era nato nel 1926.
Allievo di Carl Gustav Jung, è stato il fondatore della psicologia archetipica. È autore di oltre venti libri tradotti in 25 lingue I 10 libri fondamentali Il suicidio e l’anima (Suicide and the Soul, 1964), Astrolabio-Ubaldini 19992; Adelphi 2010 Saggio su Pan (An Essay on Pan, Adelphi 19822 1972), Il mito dell’analisi (The Myth Adelphi 19913 of Analysis, 1972), Re-visione della psicologia (Re-visioning Psychology, 1975), Adelphi 19922 Il sogno e il mondo infero (The Dream and the Underworld, 1979), a cura di Bianca Garufi, Ed. di Comunità, Milano 1984; Il Saggiatore, Milano 19962; Adelphi 2003 Il codice dell’anima: carattere, vocazione, destino (The Soul’s Code, 1996), Adelphi 1997 L’anima del mondo (con Silvia Ronchey), Rizzoli 1999; Bur 20042 La forza del carattere: la vita che dura (The Force of Character and the Lasting Life, 1999), Adelphi 2000 Il piacere di pensare (con Silvia Ronchey), Rizzoli 2001; Bur 2004 Un terribile amore per la guerra (A Terrible Love of War, 2004), Adelphi 2005 “Socrate, sei come una torpedine marina. Quando parli dai la scossa», è scritto in un dialogo di Platone. James Hillman, fra i massimi pensatori dei nostri tempi, aveva una personalità socratica. Ci insegnava a conoscere noi stessi, secondo il motto inciso sul marmo di Delfi. Si metteva sempre in contrasto con l’opinione corrente. E aveva una grande esperienza nel dialogo. Ogni volta che si dialogava con Hillman ci si trovava in contatto con quell’ironia socratica, quella capacità di rovesciare ed elettrizzare ogni discorso, che è propria di chi ha inventato un nuovo pensiero e un nuovo modo di far pensare gli altri, sovvertendo completamente le loro abitudini logiche e psicologiche. Hillman ci dava non solo e non tanto le risposte, Hillman ci dava le domande. Correggeva le nostre domande, le guariva dalla loro inerzia e dalla loro patologia.
Da anni aveva scelto di psicanalizzare non più singoli pazienti, ma tutti noi. Era un terapeuta della psiche collettiva, aveva preso in cura l’Anima del Mondo. Meraviglioso scrittore, ispirato oratore nelle prodigiose conferenze tenute per tutta la vita in tutto il mondo, Hillman era un cosmopolita. Aveva studiato alla Sorbona e a Dublino, era stato allievo di Jung a Zurigo, alla sua morte aveva diretto lo Jung Institut. Conosceva non solo molte lingue – incluse quelle morte, come il greco antico degli dèi pagani che amava e frequentava – ma anche il linguaggio dell’inconscio, la lingua dei sogni, il dialetto dei simboli e delle immagini. Non era solo «cittadino del kosmos », del mondo ordinato del visibile, ma anche e forse soprattutto un cittadino del sottomondo , di quell’universo di fantasie, archetipi e miti, di quell’universo sotterraneo, fatto a strati come le rovine dell’antica Troia scavata da Schliemann, che sta dentro ognuno di noi, e che sta anche intorno a noi, sebbene pochi sappiano vederlo.
A questo secondo kosmos di cui era cittadino Hillman aveva dedicato i suoi molti libri, pubblicati in tutte le lingue, che hanno fatto dell’autore stesso un mito. Sono veri capisaldi del Novecento libri come Il suicidio e l’anima o il Saggio su Pan oIl mito dell’analisi o la Re-visione della psicologia oIl sogno e il mondo infero , per non parlare degli ultimi grandi bestseller internazionali, dal Codice dell’anima aLa forza del carattere aUn terribile amore per la guerra .
Chi ha letto i libri di Hillman sa che chi li aveva pensati e scritti non era solo uno scrittore e un pensatore, ma era, come lo aveva definito un celebre critico americano, «uno dei più veri e profondi guaritori spirituali del nostro tempo». Era questo che faceva, con i suoi libri, le sue conferenze, le verità aggressive, le idee sempre corrosive e eversive che ci offriva: vivificare le nostre menti e le nostre anime, rimetterle in contatto con le loro origini. Quando parlava o scriveva, rovesciando luoghi comuni e abitudini mentali, ci istigava a praticare una conoscenza che andasse anche al di là e al di qua del pensiero razionale.
Lo ha fatto fino all’ultimo istante della sua vita. Nella sua casa di Thompson, nel Connecticut, ha continuato a dialogare con una piccola cerchia di seguaci, amici e discepoli dalle estrazioni più varie, accomunati dalla pluriennale venerazione per lui e da quello che gli antichi greci avrebbero chiamato l’amore per la sophia , ossia, appunto, la filosofia. La sua è stata non solo una morte filosofica, ma da filosofo antico, l’ ars moriendi – anche se non voleva la si chiamasse così – di un laico, pagano maestro di intelletto e soprattutto di anima. Perché alla scommessa, pacata e implicita, di restare pensante, lucidamente pensante e dialogante, di spingere la ricerca razionale fino all’estrema soglia della biologia, si sommava un’incessante attività di ricerca interiore, di introspezione psicologica: un esercizio estremo di quella «visione in trasparenza» di cui aveva parlato nei suoi scritti, e che lo ha portato all’ultima frontiera dell’io in uno stato di continuo ascolto dei messaggi della psiche, e non solo di quella conscia. Uno stato infero, ma sublime, nel senso etimologico latino del termine, sub limine , alla soglia, sul confine.
L’inesauribile curiosità per quello stato, che lo animava e di cui continuamente parlava come di una condizione nuova e sorprendente, era mantenuta a prezzo di un ridotto dosaggio di morfina e dunque di una sofferenza fisica affrontata con assoluto coraggio ma senza ostentazione né retorica, per non rischiare, come diceva, di peccare di hybris . Del resto, con la concentrazione e la lucidità che perseguiva in modo tanto accanito quanto stupefacente, anche il dolore era analizzato in termini sia filosofici sia psicologici, e molto spesso – in sintonia con un altro dei suoi grandi interessi di studio – in termini alchemici. Le immagini del processo di dissolutio ecoagulatio e la descrizione in quel linguaggio di altre condizioni psichiche che via via si affacciavano – la rubefactio immaginativa, che precede la sublimazione nell’estrinsecazione della bellezza, la figura della rotatio , nel cui ciclo non si può mai dire cosa è superiore e cosa inferiore – dominavano spesso la parte più strettamente introspettiva e psicologica della sua analisi del morire.
Uno dei grandi blocchi americani di carta rigata gialla era sempre accanto al suo letto, perché chi si avvicendava a vegliare il suo sonno – Margot, la stoica, coraggiosa moglie, ma anche gli allievi e amici – potessero raccogliere e trascrivere le parole che pronunciava in sogno, per poi leggergliele al risveglio e analizzarle insieme a lui. Anche in questo esercizio adottava il sistema maieutico del dialogo, e l’ispezione del profondo portava a un’estroflessione e quasi condivisione dell’anima, a dimostrazione di un’altra delle grandi verità che aveva elaborato nella sua opera, prendendo spunto dai pensatori antichi, platonici e neoplatonici: che noi siamo dentro l’anima, e non l’anima in noi, che l’anima è uno spazio fluido che si può condividere. Se l’anima individuale si fa nel mondo (il concetto del «fare anima», tratto dalla definizione che Keats aveva dato del mondo come «la valle del fare anima»), noi tutti partecipiamo dell’Anima del Mondo.
Diceva che le parole gli alleviavano i dolori delle ossa come i cuscini che gli venivano continuamente sistemati nel letto da cui, come sapeva, non si sarebbe più rialzato, e che era stato portato in salotto, al centro della casa, di fronte alla grande vetrata aperta sull’abbagliante autunno del New England. Su un tavolino, a disposizione di chiunque volesse leggerle, una raccolta di poesie giapponesi sulla morte scritte da monaci zen o da autori di haiku.
«Una radiosa gradevole / giornata d’autunno per viaggiare / incontro alla morte».
L’anima dell’Europa cominciò a scomparire quando non si eressero più le cattedrali
11 agosto 2011di Francesco Lamendola
Fonte: Arianna Editrice
L’Europa possiede ancora un’anima?
Probabilmente no: quel che restava di essa è stato spazzato via dalle due guerre mondiali e specialmente dai deliberati, sistematici, criminali bombardamenti aerei alleati, che hanno cancellato, insieme alla vita di centinaia di migliaia di persone innocenti, le ultime vestigia di una antica e gloriosa civiltà: i musei, le biblioteche, le ville, i palazzi, le cattedrali… Già, le cattedrali: quella straordinaria, incomparabile foresta di pietra vivente che un soffio potentissimo di spiritualità eresse, nel cuore del Vecchio continente, nell’arco di circa tre secoli, dal Mille al Milletrecento; precedute, a loro volta, da una grandiosa, spettacolare fioritura monastica, che disseminò ovunque conventi e abbazie e che attrasse migliaia e migliaia di giovani d’ambo i sessi verso un ideale ascetico e altamente spirituale.
Le grandi cattedrali gotiche sono il monumento più straordinario che la civiltà europea abbia mai innalzato all’Assoluto e, al tempo stesso, la più commovente testimonianza resa da quella civiltà alla nostalgia della propria parte migliore: il richiamo dell’Essere, di quel Primo Motore e di quel Centro cosmico che, per le creature terrene, è come l’Alfa e l’Omega, il principio e la fine di ogni cosa ed il senso ultimo di tutto ciò che esiste.
Con buona pace della Vulgata illuminista e neoilluminista, secondo la quale vi è poco o nulla da salvare nei secoli del “buio Medioevo”, mai come allora il nostro continente è stato vivo e pulsante di fede, di operosità, di ricerca della verità: quando persone d’ogni ceto e d’ogni età si mettevano in cammino, a piedi, per San Giacomo di Compostella o per Monte San’Angelo (il computer mi segna come errore la parola “Compostella”: fino a questo punto è giunto l’oblio delle proprie radici, propiziato dalla barbarie tecnologica); e quando dai conventi alle università si spandeva, come un fiume armonioso e possente, la filosofia di San Tommaso d’Aquino, supremo sforzo di conciliazione della cultura cristiana con quella greca e mirabile architettura spirituale, nata e pensata per misurarsi coi millenni, non – come la maggior parte delle filosofie contemporanee – con gli anni o, magari, i mesi… La decadenza dell’Europa è incominciata quando quel meraviglioso soffio di spiritualità ha incominciato a spegnersi; quando i suoi abitanti hanno smesso di costruire le cattedrali (anche se hanno continuato ad erigere templi, ma ormai non più segni di preghiera slanciati verso il Cielo, bensì vuoti simulacri per celebrare la maestria del singolo architetto); quando l’anima delle persone ha perso il proprio centro e si è dispersa in una quantità di richiami, di brame e di appetiti disordinati e distruttivi.
È stato allora, fra il XIV e il XV secolo, quando l’astuzia del banchiere ha definitivamente sopraffatto e spodestato la nobiltà d’animo dell’asceta o del guerriero (che magari erano la stessa persona, come nel caso dei cavalieri templari) e quando la Chiesa è venuta a patti col mondo dei valori borghesi, lasciando cadere la sua secolare condanna dell’usura, che l’Europa ha incominciato a perdere la propria anima.
Dopo di allora, la sua storia non è stata che quella di una lenta agonia; anche se ciò è passato, paradossalmente, quasi inosservato, perché proprio a partire da quell’epoca è iniziata la sua spettacolare espansione produttiva, commerciale, militare, scientifica e tecnologica, che le ha consentito di sottomettere gran parte del mondo e di proclamare la propria come la migliore delle civiltà possibili, dalla quale ogni altra aveva solo da imparare (quando addirittura non meritava la distruzione fisica, come più volte accadde).
Dopo di allora, l’Europa ha smesso di generare giganti dello spirito come San Francesco, giganti del pensiero come Dante, giganti dell’arte come Giotto; ed è incominciata la generazione dei nani presuntuosi e maligni, dei quali è bello tacere gli stessi nomi, anche perché il loro numero è legione e non accenna a diminuire: queste anime brutte, rachitiche, crudeli, che sanno solo distruggere, dissacrare e gettare su ogni cosa l’ombra dei peggiori sospetti.
Se, percorrendo le navate di una cattedrale gotica, si alza lo sguardo verso la controfacciata e ci si lascia abbagliare dalla luce che filtra attraverso il rosone, non si può non percepire, oltre alla perfetta sapienza costruttiva, anche il significato simbolico e mistico della ruota, che ricorre anche in mille e mille sculture, pitture, mosaici: di quella ruota che è, al tempo stesso, simbolo di movimento, di vita, di progresso spirituale e di ritorno al cuore della realtà, al cure dell’Essere, a quel Motore Immobile dal quale ogni cosa ha ricevuto inizio.
E non è certo un caso che l’immortale poema dantesco, summa e coronamento di tutto il sapere medievale, si concluda con l’immagine di una ruota che gira con movimento uguale ed armonioso, riassumendo in se stessa quanto vi è di geometricamente perfetto, come il cerchio, e di nobilmente mobile e progressivo:
«All’alta fantasia qui mancò possa;
ma già volgeva il mio disio e ‘l velle,
sì come rota ch’igualmente è mossa
l’amor che move il sole e l’altre stelle» (Par., XXXIII, 142-45).
Scrive Angelo Terenzoni nel libro «L’universo simbolico della cattedrale. San Lorenzo di Genova» Genova, Edizioni Alkaest, 1980, pp.
13-15):
«Espressione di un cosmo ordinato attorno al Primo Motore e di una tensione verso l‘alto attuantesi nel raggiungimento del centro dello stato umano e da lì ascendente verso gli stati superiori dell’essere, la cattedrale rappresenta una realizzazione artistica che affonda le sue radici in un “humus” tradizionale nel quale venga mantenuto un costante collegamento tra metafisica e religione, ove sia cioè possibile, a chi ne è qualificato, di trascendere, pur senza annullarla, tale ultima dimensione e così fare riferimento alla sfera dei principi. Opera di centri iniziatici coscienti di una simile gerarchia di livelli conoscitivi, tale collegamento si esaurì con essi e col venire alla ribalta dell’individualismo, il quale si realizzò pienamente con Umanesimo e Rinascimento; il primo pose l’uomo infatti al centro dell’universo ed a Lui ricondusse ogni cosa, tagliando il filo collegante l’essere umano al suo Principio, mentre il secondo ne fu un’immediata conseguenza nell’arte e diede inizio ad un processo involutivo, al termine del quale l’artista si sarebbe scoperto una miserevole nullità, uno spettro schiavo degli impulsi psichici ed ormai condannato a vagare nella dimensione infraumana.
L’arte postmedievale si caratterizza quindi per la perdita di quel centro che l’artefice del Medioevo ebbe sempre ben vivo e presente ed attorno al quale fa ruotare il suo universo simbolico, riconducendo il tutto nell’ambito sacro del tempio, immagine del cosmo e perciò visione totalitaria della realtà, Il Rinascimento disperde questa armonia e questa sintesi, spargendo le opere d’arte in ogni punto che piaccia all’individuo e dove esse ne soddisfano il gusto estetico; su questa via si smarrisce completamente l’idea della forma e la figura umana, dall’arte medievale riassunta nell’immagine del Cristo Verbo Incarnato, si snatura, sino a divenire un’accozzaglia di linee e di ghirigori, di nasi e di bocche mostruosi, piazzati su visi dalla più aberrante forma. È questa la perdita di un centro simbolicamente esprimibile collo sfasciamento della Ruota, i cui frammenti si disperdono all’intorno, sino al dissolversi nel nulla inferiore; ma, accanto, ad una inesorabile dissoluzione, la quale appare conforme peraltro alle leggi cicliche, vi sono delle ripercussioni sulle organizzazioni dei costruttori delle cattedrali e sulla liturgia religiosa.
Sdi ha tuttavia, in questi due casi, solo un occultamento del centro, in quanto la Ruota resta sempre ben salda nella sua interezza; vi è comunque un riflusso sul contorno, come effetto del venir meno dei centri iniziatici vivi e operanti in seno alla Tradizione Medievale.
Così le corporazioni dei costruttori, a partire dal XV secolo, entrano in una fase di fluidità, al termine della quale verrà alla luce la Massoneria, fiera nemica del Cattolicesimo e fattiva parte nella formazione del mondo moderno. Si ha, in poche parole, un continuo coinvolgimento nella molteplicità ed un mutamento di azione per adattarla alle contingenti realtà, il tutto come effetto dell’abbandono dell’operatività, quest’ultima condizione unica ed imprescindibile per il raggiungimento del centro. La massoneria conserva comunque il rituale degli antichi costruttori ed i suoi simboli sono in grado di riacquistare tutto il loro valore, una volta che verrà attuato il ritorno all’operativo, come effetto derivato di una primaria ed imprescindibile restaurazione tradizionale muovente dai principi metafisici.
In campo cattolico, alla cattedrale segue la chiesa barocca della Controriforma, la cui struttura pesante ed intonacata esprime la sclerotizzazione di un mondo, mentre i cieli tempestosi delle sue volte danno l’idea di una tensione interore priva di sbocco verso
l’alto: è infatti questo un contesto in cui la dimensione esoterica è perduta ed in cui regna sovrano il più bieco esclusivismo religioso.
Purtuttavia la fede delle masse appare salda e la liturgia, coi suoi cori, il suo incenso e le sue luci, è in grado di trasmettere all’individuo una tensione sentimentale che ne appaga le esigenze devozionali, dandogli la chiesa un senso di sicurezza e di protezione.
La modernizzazione del cerimoniale attuata dal Concilio Vaticano II, come effetto del recepimento delle dissacrate motivazioni esistenziali del mondo moderno, toglie al rito tale capacità di appagamento, trasformando la chiesa in una sala di adunanza comunitaria, ove la celebrazione delle lingue nazionali e gli sdolcinati inni, privo di significato, sono il risultato di una simile “protestantizzazione”.
Dell’espressione liturgica. Il tempio perde allora la sua natura di luogo ove attuare l’elevazione verso l’alto e diviene una sola ed unica navata, al cui centro sta un altare rivolto verso i fedeli, ove il celebrante spesso si compiace di sentirsi “uno dei tanti” e, in questa sua follia, smarrisce il senso del rito della Messa che, come sacerdote, ripete continuamente.
Individualismo artistico, Massoneria e liturgia postconciliare costituiscono quindi, seppure con sfumature diverse, altrettanti aspetti di una degenerazione e, come tali, esprimono una realtà profondamente diversa rispetto al’epoca in cui l’arte trovava il suo fine ultimo nella conoscenza ed i costruttori delle cattedrali ne attualizzavano operativamente i suoi canoni, elevando monumenti ove ilo rito rifletteva una centralità indefinitamente recuperabile. Il ritorno ad una simile armonica sintesi, nella quale un centro immobile governa ogni cosa, non appare tuttavia un’impossibilità esistenziale – e la cattedrale si staglia ad immagine viva di una restaurazione da attuare – restaurazione che avrà tuttavia un senso – ed è bene sempre ribadirlo – nella misura in cui la luce della conoscenza metafisica brillerà di nuovo nell’Occidente, distruggendo ogni individualismo, “scacciando i mercanti dal Tempio” e ridando al Cattolicesimo quell’apertura verso l’alto che ne fa una tradizione “conforme ai principi”, in linea cole parole di Cristo a Pietro: “Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le porte dell’Inferno non prevarranno contro di essa”.»
Tirando le somme dall’esperienza degli ultimi sette secoli, si può dire che da quando gli uomini hanno voltato le spalle al Motore Immobile e, con esso, all’idea di un Cosmo vivo e ordinato, per sostituirla con quella di una casuale aggregazione della materia, senza senso e senza scopo, non hanno fatto altro che preparare, dietro gli effimeri successi della scienza e della tecnica, la propria caduta morale e spirituale.
Vi è ancora spazio per nutrire la speranza di una ripresa, di una rinascita, di una ricostruzione dell’anima dell’Europa e, con essa, dell’uomo contemporaneo?
Dal punto di vista puramente razionale, bisogna ammetterlo, le speranze sono deboli. E tuttavia: nessuna speranza è morta del tutto, finché anche un solo essere umano custodisce e alimenta, nel tesoro della propria anima immortale, il sogno eterno della Verità, della Bontà e della Bellezza…